Esiste una logica elementare dell’emancipazione? Sì: si tratta di qualcosa che, almeno in linea di principio, conduce ad un mutamento di status. Molto, però, dipende dal mondo che si lascia, da quello in cui si entra e dalle sovrapposizioni tra i due. Al giorno d’oggi è difficile immaginare una società che non sia democratica, ma dal punto di vista storico emancipazione non significa necessariamente democrazia. Gli ebrei furono talora emancipati sotto la monarchia assoluta illuminata. È possibile veder garantiti i diritti civili ed essere pari agli altri davanti al giudice senza avere il diritto di voto (forse perché nessuno ne è in possesso). È possibile anche godere dei diritti civili e del diritto di voto, ma essere costretti ad soffocare in pubblico la propria voce per il gelo del pregiudizio politico, sociale, culturale o religioso.
Se molto dipende dal mondo che lasci e da quello in cui entri, molto dipende anche da chi “tu” sia, prima e dopo. Emancipazione significa che tu facevi parte di un gruppo con handicap civili che sono stati eliminati. Una volta che il gruppo è emancipato, che il suo passato status legale si dissolve, i suoi membri entrano nel nuovo mondo come individui, come una nuova versione del gruppo o una combinazione delle due modalità?
Infine, molto dipende da quello che chiamerò “riaggiustamento” [readjustment]. Il rimedio contro il pregiudizio non può consistere solamente nell’offrire diritti e garanzie giuridiche alle vittime, per quanto importanti siano diritti e garanzie. L’emancipazione, l’effettiva emancipazione, significa anche un più generale riaggiustamento sociale, culturale e politico – non solo da parte delle persone emancipate, ma anche da coloro che li circondano. Simone de Beauvoir pose la questione in maniera radicale quando scrisse, ne Il secondo sesso: “Come in America il problema non è dei Neri, ma dei bianchi; come l’anti-Semitismo non è un problema degli Ebrei, ma un problema nostro; così il problema delle Donne è stato sempre un problema degli uomini”. L’emancipazione implica un’inedita prossimità tra persone che in precedenza erano separate (oppure, una ridefinizione dell’intimità nel caso di uomini e donne). In una democrazia, ciò significa che quelli che erano esclusi e senza capacità politica prenderanno parte alle decisioni sul destino della società.
Emancipazione e autoemancipazione
L’emancipazione, quindi, è più sfaccettata della sua logica elementare. Una volta inserita in dinamiche storiche – e non può essere altrimenti – la sua realtà diventa confusa e non una semplice questione di logica. Consideriamo quelle che possono essere chiamate le due logiche dell’emancipazione ebraica. La prima emerse all’incirca tra il 17º e il 19º secolo, parallelamente allo sviluppo dei moderni Stati europei. L’idea – la speranza – era semplicemente che gli ebrei potessero lasciarsi alle spalle le antiche restrizioni ed essere ammessi nelle società ormai illuminate in cui si trovavano. Ciò implicava un riaggiustamento esclusivamente da parte degli ebrei, un difficile trade-off che sarà più tardi condensato nella formula: “Essere ebreo a casa, una persona comune fuori”. Attraverso questa privatizzazione del pluralismo, la ragione, una qualità umana universale, dovrebbe dissolvere tutti i pregiudizi. L’idea dell’universalizzazione come solvente ebbe un ruolo centrale nel liberalismo, nel repubblicanesimo e nel tardo-marxismo, prendendo la forma, rispettivamente, di individualismo, cittadinanza e proletariato.
La seconda logica emerse quando tramontarono le speranze riposte nella prima; può essere chiamata logica di “auto-emancipazione”, riprendendo il titolo del pamphlet proto-sionista pubblicato nel 1882 da Leo Pinsker, un fisico ebreo di Odessa. Negli anni precedenti, i pogrom avevano devastato la vita degli Ebrei in circa duecento centri dell’Impero zarista. Avevano avuto il plauso del regime e dei suoi nemici più radicali, i populisti. Pinsker era stato un sostenitore dell'”illuminismo”, dell’incrocio tra “modernizzazione” culturale degli ebrei e liberazione dagli zar; si trattava di un modello di emancipazione simile a quello diffuso nell’Europa occidentale.
Ora però, angosciato, scriveva che qualunque cosa facesse, l’ebreo era stato ormai costruito come un problema, come un qualcuno da biasimare comunque: “Per chi vive l’ebreo è un morto, per i nativi uno straniero e un vagabondo, per gli abbienti un accattone, per i poveri uno sfruttatore e un milionario, per i patrioti un uomo senza patria, per tutte le classi un nemico odiato”. Poiché Pinsker era un fisico, non sorprende che caratterizzasse l’anti-semitismo come una malattia. Propose una cura: una nuova politica di auto-determinazione, l’indipendenza politica degli ebrei. Altri ebrei dell’Europa orientale risposero all’anti-semitismo con i loro piedi (emigrando in gran numero) o, più tardi, sostenendo il nazionalismo della diaspora. Pinsker, invece, anticipò l’appello di Theodor Herzl, di quindici anni successivo, in favore di uno Stato ebraico come risposta al crescente anti-semitismo e ai balbettii delle speranze di emancipazione che caratterizzavano l’Europa occidentale. Pinsker e Herzl proponevano un riaggiustamento politico collettivo nelle relazioni degli Ebrei con il mondo.
Penso che sia necessario considerare la politica israeliana di oggi come la lontana discendente di queste travagliate lotte per l’emancipazione e l’auto-emancipazione. In entrambi i casi si trattava di lotte che cercavano una qualche sorta di “normalità”, pur differentemente definita, ed entrambe assumevano lo Stato moderno come cornice. L’emancipazione puntò all’integrazione dentro la società, il sionismo assunse il principio stesso di statualità, cioè l’indipendenza politica degli ebrei, come risposta lungimirante alla crescita dell’anti-semitismo ed agli eventi della fine del 19º e degli inizi del 20º secolo. Qualsiasi cosa uno pensi dell’evoluzione di Israele, alla luce di quei fatti è difficile trovare da ridire sul pessimismo dei sionisti.
I sionisti non previdero una catastrofe della scala dell’Olocausto e alcuni di loro non colsero gli avvenimenti politici degli anni Trenta con lucidità. Eppure, ebbero un senso molto più acuto della minaccia storica – dell’intransigenza – dell’anti-semitismo rispetto a molti dei loro critici, specialmente quelli che credevano che le soluzioni universalistiche (per esempio una società senza classi) avrebbero risolto tutte le questioni di natura particolaristica. È utile ricordare che la relativa sicurezza goduta dagli ebrei del post-emancipazione nell’Europa di oggi non scaturisce dal semplice sviluppo dell’emancipazione, ma da una catastrofe senza precedenti.
Anti-sionismo e anti-semistismo
Emancipazione ed auto-emancipazione non sono riuscite a risolvere il problema dell’anti-semitismo. Il pregiudizio si ripresenta secondo modalità proprie, alcune volte in forme inedite, altre volte usando semplicemente una diversa maschera. Iain Pears, il romanziere inglese, ha notato di recente: “l’anti-semitismo è come l’alcoolismo. Puoi andare avanti per 25 anni senza un bicchiere, ma se le cose ti vanno male e ti trovi con una vodka in mano, non te ne liberi più”. Non so se gli specialisti contemporanei considerino l’alcoolismo una “malattia sociale”, ma so che gli alcoolisti spesso protestano vigorosamente, sostenendo che non hanno nessun problema, o che il problema c’era ma è stato risolto tanto tempo fa. So anche che costringerli a parlare ad alta voce del loro problema è considerato necessario per curarli.
Molti motivi sono ricorrenti nel discorso anti-semita classico, e penso che oggi sia utile richiamarli. Sono venuti a costituire un insieme consistente, per quanto non necessariamente coerente:
1. –Insinuazioni: gli ebrei semplicemente non si inseriscono – o meglio, non possono inserirsi – in maniera reale nella società. C’è in loro qualcosa di estraneo e sinistro;
2. –Lamenti: gli ebrei sono troppo particolaristici, troppo presi dai propri interessi, hanno uno spirito di clan e non solidaristico. Sono loro a fare di se stessi un problema. Se la “questione ebraica” è in qualche modo unica, ciò dipende da loro ed è normalmente occultato dalle loro speciali controdeduzioni;
3. –Rimostranze: gli ebrei cavillano di essere vittime, in realtà hanno un potere enorme, specialmente finanziario. È ovunque, anche se invisibile. È esercitato manipolando e cospirando, dietro le quinte;
4. –Recriminazioni: agli ebrei sono ascritti misfatti straordinari, che vanno dall’assassinio di Dio al sacrificio rituale di bambini fino alla vendita di segreti militari al nemico, all’essere capitalisti, o piccolo-borghesi o proprietari terrieri o usurai che sfruttano i poveri – o chissà cos’altro. E gli ebrei, sempre, ti ingannano.
Non è che uno schema, in cui tralascio alcune questioni circa le derivazioni storiche, come la trasformazione dell’odio pre-moderno contro gli ebrei, fondato sulla teologia, nell’anti-semitismo moderno, con basi nazional-razziali. Non intendo minimizzare la distinzione tra bigottismo religioso, che almeno in linea di principio offre la salvezza della conversione, e antagonismo nazional-razziale, che assume come elementi di ostilità tra ebrei e non ebrei dei tratti immutabili, “naturali”. Ciò che voglio sottolineare è la riproduzione, nei cambiamenti, del “discorso” del pregiudizio, e suggerire che questo discorso funziona come un circuito chiuso, che nessuna evidenza sembra in grado di rompere.
Prendi i quattro motivi di anti-semitismo, cambia un po’ di parole e frasi, ed ecco che diventano magicamente i motivi anti-sionisti ripetuti nei mondi arabi e musulmani, ma anche in molti circoli intellettuali della sinistra occidentale:
1. –Insinuazioni: i sionisti sono un innesto che non può attecchire in Medio-oriente. Il loro Stato fu una creazione dell’imperialismo occidentale;
2. –Lamenti: i sionisti sono esclusivisti ed uno Stato ebraico non può mai essere democratico;
3. –Rimostranze: i sionisti cavillano di essere vittime, in realtà hanno enorme potere, specialmente finanziario. È ovunque, anche se invisibile. È esercitato manipolando e cospirando, dietro le quinte. Basta guardare il loro potere a Washington.
4. –Recriminazioni: i sionisti sono colpevoli di misfatti straordinari e ignobili, che vanno dall'”aggressione imperialista” del 1967, dall’affermazione di Barak di aver fatto, a Camp David, un’offerta reale, fino al “massacro” di Jenin.
In linea di principio, penso che anti-sionismo e anti-semitismo siano distinguibili: il primo è una posizione politica, il secondo è un pregiudizio. La sovrapposizione tra discorso anti-semita e anti-sionista, però, è oggi considerevole. La cosa fa specie, in un tempo in cui molti intellettuali, in particolare esponenti della sinistra post-modernista e teorici degli studi post-coloniali, basano il proprio lavoro proprio sulla nozione di “discorso”, affermando che le assunzioni depositate nel nostro linguaggio e nella nostra cultura pre-selezionano il modo in cui ci rapportiamo al mondo e mescolano la produzione di conoscenza con quella di potere.
Potrebbe anche darsi che l’alcoolismo sia destinato a rimanere tra noi, anche se legato a differenti tipi da alcool. Forse può essere abolito tramite misure totalitarie, ma ciò non significa che per contrastarlo non andrebbero adottate altre misure, quelle democratiche. Vorrei suggerire che in questo momento di trasformazione, cinque idee reciprocamente connesse potrebbero essere utili nel rafforzare la resistenza democratica all’ubriachezza:
Primo: riaffermare un umanismo laico. In anni recenti, alcuni pensatori politici, come, negli Stati Uniti, l’ultimo John Rawls e Bruce Ackerman, hanno argomentato che l’umanismo laico e la fede religiosa sono entrambe visioni del mondo “comprensive” e, di conseguenza, che uno stato democratico liberale dovrebbe essere neutrale nei loro confronti. Penso che la cultura dell’umanismo laico dovrebbe essere privilegiata nella democrazia liberale (o, come preferirei, nella democrazia sociale) perché può contemplare una vita religiosa mentre la cultura religiosa non può fare lo stesso con il pensiero laico. Per questo motivo contesto la separazione compiuta da Rawls tra ragione pubblica e ragione laica.
L’umanismo, con le sue origini rinascimentali tra pensatori che erano per lo più, in un modo o nell’altro, religiosi, sfidò la metafisica totalizzante del Medioevo e incoraggiò il pluralismo intellettuale accettando la legittimità di diverse autorità – i Greci e i Romani in aggiunta all’Autorità suprema. Ciò costrinse le persone a riflettere, a pensare da sole, a considerare differenti punti di vista, a prendere decisioni. Si tratta di pre-requisiti di una società libera, nella quale cittadini dotati di spirito critico sono l’autorità finale ma in cui gli individui possono valutare e scegliere tra diverse opzioni di vita, laica, religiosa, o un mix delle due.
Secondo: il pluralismo culturale e religioso dovrebbe essere protetto e valorizzato. Società e governi non dovrebbero continuare ad assumere che si viva – o che si debba vivere – in un mondo dominato dall’individualismo astratto. Siamo individui sociali e l’individualismo fondamentalista, come ogni fondamentalismo, è oppressivo.
Terzo: il pluralismo, radicalizzato, può portare alla frammentazione, facendo venir meno ciò che unisce i cittadini di una società democratica. Penso che una versione emendata di quel che Rawls chiama “ragione pubblica” aiuti a contrastare tale possibile effetto. Il confronto democratico sulle questioni politiche di fondo – che per Rawls si limitano a quelle di rilievo costituzionale – deve riguardare “i cittadini in quanto cittadini”. Ritengo che una società pluralistica abbia bisogno che questa specie di deliberazione si articoli in due stadi. Nel primo, i cittadini democratici esprimerebbero argomenti radicati nelle loro tradizioni particolaristiche – politiche, culturali, religiose, eccentricamente singolari o frutto dell’ubriachezza e del pregiudizio. Ciò fa sì che i cittadini democratici possano ascoltarsi, comparare i punti di vista e imparare dagli altri, nonché abituarsi a diverse rivendicazioni. Nel secondo stadio, però, come suggerisce Rawls, i cittadini tradurrebbero le loro deliberazioni in un linguaggio politico condiviso. Se non sono in grado di compiere questa traduzione – se sono, per esempio, troppo occupati a bere vodka – non possono persuadere nessuno. Il punto corrisponde, anche se se da un punto di vista politico, all’argomento di Habermas secondo cui: “Possono pretendere validità solo quelle norme che sono (o potrebbero essere) approvate da tutti coloro che sono coinvolti nella loro qualità di partecipanti di un discorso pratico“.
Quarto: la società in cui si delibera in questo modo deve essere una società di uguaglianza-fratellanza (equality-friendly society). Grandi ineguaglianze di ricchezza e potere sociale possono corrompere lo scambio democratico e frammentare la società tanto quanto differenze culturali o religiose. Una società di uguaglianza-fratellanza accetta le differenze tra individui o gruppi, ma rimane ancorata all’idea-guida dell’uguaglianza e presuppone che siano le disuguaglianze a dover essere giustificate.
Quinto: tutte queste idee sfociano in ciò che chiamerei “cosmopolitismo radicato”. Il cosmopolitismo radicato si oppone al cosmopolitismo integralista (che reifica l’umanità) tanto quanto all’individualismo e al nazionalismo integralisti (che reificano l’ego e un particolare gruppo). È un’idea dialettica (mi scuso per l’uso di questa formula poco popolare). Si basa sulla legittimità di fedeltà plurali, insistendo però sulla “comune”base democratica.
Il cosmopolitismo radicato vive fuori dalla tensione tra universalismo e particolarismo, non cerca di ricondurli a qualche falsa riconciliazione. Nelle parole di Bernard Lazare, non si può essere universali, non si può “partecipare all’umana impresa”senza essere anche particolari. Ogni persona “post-emancipata” – nera o donna, musulmana o cristiana, araba o cinese, francese o americana – potrebbe convenire.
Published 10 May 2005
Original in English
Translated by
René Capovin
First published by Reset 84/2004 (Italian version) and Jewish Social Studies, Indiana UP 2003 (English version)
Contributed by Reset © Mitchell Cohen/Jewish Social Studies Eurozine
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