Siamo tutti migranti
Migrazione ed esilio hanno segnato il mondo sin dalle sue origini. E per la gran parte del tempo, la presenza ambivalente dell’altro ha suscitato sentimenti estremi.
Molti anni fa, mi trovavo in Etiopia e raccoglievo materiale per un romanzo; è stato allora che nel porto eritreo di Assab ho conosciuto un settantenne italiano. Tio, “zio”, come veniva chiamato affettuosamente da tutti, si dichiarò un insabbiato. Questo termine è stato coniato per quegli italiani che avevano preso parte all’invasione dell’Etiopia di Mussolini nel 1936, e che hanno deciso di restare in Africa dopo la sconfitta del loro paese, alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Nonostante riuscisse a malapena a sbarcare il lunario – al tempo del nostro incontro lavorava alla reception dell’unico albergo turistico di Assab – Tio si godeva il suo sradicamento. Era rimasto affascinato dalla ricca cultura etiopica e dalla bellezza delle sue molte genti – in particolare delle donne.
Euforici, passammo molti giorni e molte notti in compagnia delle sue magnifiche conoscenze. Nei momenti in cui era sobrio, mi mostrava la sua collezione di francobolli e mi raccontava nei minimi particolari di come era riuscito a procurarsi, nonostante la sua indigenza, alcuni esemplari molto rari, e di come alla sua morte, non avendo figli, avrebbe lasciato l’intera collezione a un istituto di carità per l’infanzia. (Mesi dopo, a Londra, un eminente filatelico al quale avevo mostrato un regalo di Tio mi disse che quella collezione di francobolli era assolutamente unica, e che valeva una fortuna.).
Per la maggior parte del tempo, Tio ed io parlavamo della casta – sicuramente la più estesa del mondo – alla quale appartenevamo entrambi: la casta dell’altro. Quella degli esiliati, dei rifugiati, dei migranti, dei profughi, degli outsider, degli esclusi, degli stranieri, degli intoccabili – e, naturalmente, degli artisti e degli scrittori.
A rappresentare questa casta, Tio proponeva sempre l’immagine degli insabbiati. Diceva che eravamo creature che affrontavano la morte con una consapevolezza molto più grande della fragilità della vita, e perciò fornite di un maggiore istinto di sopravvivenza; creature che non potevano o non avevano modo di vivere nel loro contesto materno e, di conseguenza, disperatamente alla ricerca di una nuova vita in terre sconosciute e in condizioni difficili; creature che spesso, nei loro nuovi ambienti, diventavano pastura per gli uomini di potere, procurando così ai loro ospiti buon nutrimento.
Da allora l’immagine degli insabbiati mi è servita sia come guida che come metafora. Come guida mi ha aiutato a combattere la depressione che derivava dalla condizione di esiliato, dalla difficile realtà dell’esclusione, dalla nostalgia della mia terra natale, e dall’angoscia sospesa del sentirsi inutile a causa delle difficoltà dell’integrazione. Come metafora, mi ha dato un punto di vista da cui vedere la storia, permettendomi di riconoscere che lo sradicamento – o, per usare un termine più gentile, la migrazione – non è solo una condizione che riguarda gran parte del mondo animale, ma anche gran parte dell’umanità; a tal punto che tutta la storia è storia di migrazione.
C’è un dualismo in ogni tensione umana. Lo stesso vale per la storia della migrazione. Ha due identità.
La prima – potremmo definirla storia “ufficiale” o “partigiana” – racconta ed esalta la guerra, le conquiste, le occupazioni, le colonizzazioni, l’assoggettamento dei popoli indigeni, la marginalizzazione delle loro culture, la denigrazione delle loro religioni e, al suo limite estremo, l’eliminazione fisica delle “vite che non meritano di vivere”. Questa frase, coniata dall’olandese Richard Liebich nel 1868 per definire i Rom, esprimeva un concetto che il Terzo Reich accolse con entusiasmo, e che è penetrato impercettibilmente nella politica di molti governi, anche di alcuni occidentali, non solo per i Rom ma anche per molti popoli del cosiddetto “mondo sottosviluppato”.
La seconda – che può essere letta solo tra le righe della “storia partigiana” e che affermerò arditamente essere “la vera storia” – rende conto delle vite di innumerevoli uomini, donne e bambini, “gli infiniti milioni di Gesù ignoti” – se posso parafrasare François Mauriac – che sono vissuti e sono morti, spesso con dignità, nonostante la brutalità e l’umiliazione sofferte in vita. E la grande maggioranza di quei milioni di esseri umani, vuoi perché affrontavano povertà, oppressione e scomunica sociale nei loro paesi, vuoi perché spinti dall’urgenza romantica, ancorché egoistica, di avere una vita migliore e più significativa, hanno cercato nuove opportunità in quello che doveva apparire come un “altrove” di riscatto.
Non affronterò oggi il tema della “storia partigiana”. Essa, in un modo o nell’altro, è stata, ed è ancora, pane quotidiano in ogni paese. Una dieta concepita dagli xenofobi che venerano l’ethos marziale delle nostre società patriarcali, e che viene servita con la benedizione delle nostre religioni assolutistiche pseudo-compassionevoli. Una dieta che mescola abilmente insicurezze tribali, nazionalistiche e religiose al fine di rimpinzare i nostri io creduloni e deboli coi grassi ingredienti dell’avidità, della rapacità, della convinzione di superiorità, dell’inutilità delle vite di tutti – all’infuori della nostra.
Cercherò invece di esplorare la condizione delle schiere di esuli, rifugiati, migranti, profughi, outsiders, emarginati e stranieri – la condizione dell’altro, per usare un’immagine archetipica – che scandisce la “vera storia”.
Uno dei princìpi fondamentali della psicologia è che lo sviluppo di una persona è determinato dalla lotta tra due forze opposte. La prima conserva la vita, la seconda la minaccia.
Freud, anche se alla fine se ne allontana, lotta animatamente con questo concetto della pulsione di morte, in cui la forza distruttiva, la tendenza a tornare alla materia primordiale – a smettere di essere – agisce sempre come impulso innato. Melanie Klein, sostenendo che la lotta comincia già durante la prima infanzia, reintroduce questo concetto come un assoluto: se una persona deve sopravvivere psicologicamente e continuare a evolversi, deve cercare di contenere la forza dell’istinto di morte per tutta la vita. Sostiene inoltre che il fanciullo, e più tardi l’individuo, al fine di proteggere il proprio io vulnerabile crea un apparato di difesa; in particolare, l’illusione che le parti distruttive della sua natura siano aliene alla sua persona e che, pertanto, possano essere eliminate ogni volta che emergono e trasferite sull’altro. D.W. Winnicott, in modo meno dogmatico, suggerisce che questo conflitto che dura per tutta la vita non è mai interamente risolto, e “lo stadio di apprensione”, stando alla sua definizione, permane. Con ciò intendeva dire che il riconoscimento della distruttività propria dell’individuo e i conseguenti e ripetuti atti di riparazione diventano padroni di entrambi gli aspetti della condizione umana.
Nelle arene polarizzate ed emotive delle lotte politiche, religiose ed etniche, queste parti distruttive assumono le caratteristiche di un archetipo. Il concetto di archetipo viene spesso interpretato o semplificato arbitrariamente in modo da assumere significati diversi per persone diverse. È meglio quindi cercare di definirlo. In Dizionario di psicologia analitica, Andrew Samuels, Bani Shorter e Fred Plaut definiscono l’archetipo come “un’entità ipotetica non rappresentabile in se stessa ed evidente solo attraverso le sue manifestazioni [] Gli archetipi suscitano affetto (ovvero, emozione), rendono ciechi di fronte alle realtà, e prendono possesso della volontà (ovvero, coscienza)”.
In un saggio apparso sul Journal of Analytical Psychology (vol. 30, n. 2, Aprile 1985), intitolato “Il luogo dell’esperienza archetipica”, Rosemary Gordon afferma che, essendo non rappresentabili, gli archetipi vengono “percepiti inizialmente come se appartenessero al fuori’, a qualcosa o a qualcuno del mondo esterno”.
Notiamo le frasi chiave: “Un’entità ipotetica non rappresentabile in se stessa”, che “rende ciechi di fronte alle realtà e si appropria della volontà”, “percepite come se quelle realtà appartenessero al fuori'”. Frasi che, nonostante la loro genericità, inducono in noi – che viviamo perpetuamente in tempi difficili – una certa apprensione, prodotta da un impalpabile senso di minaccia. Nella sua connotazione più elementare, il “fuori” evoca una forza extraterrestre che potrebbe mettere in pericolo la nostra esistenza. E questo senso di pericolo incombente produce, come suggerisce lo psicologo Christopher Hering in un saggio sulla rivista Free Associations riguardo al film di fantascienza Alien, una condizione nota come “fascismo emotivo”. Stando alle sue conclusioni, se una forza può essere mitizzata tanto da diventare il nemico acerrimo che minaccia tutta l’umanità, allora la finzione psicotica può mascherarsi da realtà oggettiva. A quel punto ogni sentimento di compassione, preoccupazione, dubbio e proscrizione può essere scardinato. In circostanze simili l’idea di annichilimento – la soluzione finale – può essere considerata un obiettivo razionale, appropriato e giustificabile, se non un imperativo morale.
Vorrei condividere con voi alcuni pensieri sulla natura dell’altro, il nostro archetipo presunto. Affinché ci sia l’altro, è necessario che ci sia un gruppo. Un gruppo può essere costituito anche da due sole persone. Una sola persona, a meno che non sia profondamente divisa nella mente e perciò già predisposta al pregiudizio, non sperimenta l’altro. Lui o lei vede lo straniero come un possibile amico, amante, nemico, o come un semplice passante. L’altro è designato tale solo da un gruppo.
Dapprima l’altro è non-percettuale. All’inizio la società ospite, per autocompiacimento o per diffidenza, si rifiuta di guardare l’altro da vicino, e perciò lo vede come un essere emerso “dal di fuori”. Quando più tardi nascono problemi economici e politici – e accade sempre – è obbligato a esaminarlo con attenzione o dal punto di vista soggettivo, attraverso pregiudizi radicati, oppure con la premeditazione che scaturisce dall’opportunismo politico. Tenendo sempre l’immagine dell’altro in quanto alieno bene impressa nella mente.
Ne consegue che la fisionomia che ci si fa dell’altro non è che il riflesso delle paure, dei pregiudizi e degli istinti più problematici della società-ospite, che sono tutti così radicati da impadronirsi delle coscienze tanto da paralizzarne ragione e percezioni, da renderle cieche di fronte alle realtà e preda dunque di ogni insicurezza.
L’altro è sempre uno strumento di cambiamento. Il cambiamento può essere regressivo o evolutivo, buono o cattivo. È così anche quando l’altro è un’idea. O una religione. O una figura iconica della storia o della mitologia. O un’immagine scolpita.
L’altro può essere il redentore che veneriamo – anche se raramente mentre è in vita. Mosè, Gesù e Maometto erano altri.
Oppure il capro espiatorio che ricerchiamo. Gli ebrei, i rom, gli omosessuali, i disabili sono sempre stati altri. In ogni comunità la pletora di vizi che viene loro attribuita può essere usata per suscitare ogni sorta di paure. Tale pregiudizio, se sapientemente manipolato, rende la razionalità vulnerabile quanto un fanciullo incapace di parlare.
L’altro svolge un ruolo vitale in ogni aspetto dell’esistenza. Deve sopravvivere in un ambiente ostile, e dunque deve essere molto creativo e adattabile. Questa creatività è sempre contagiosa, e sprona chi lavora al suo fianco ad essere a sua volta creativo.
L’altro è onnipresente nella storia.
La politica, come la religione, deve costruire un insieme di norme con le quali governare. Per comandare efficacemente, l’establishment politico, come quello religioso, deve dare ai propri sudditi il senso irrefutabile dell’esistenza sotto il suo governo, anche se essa dovesse sembrare priva di senso, o addirittura un accidente cosmico incomprensibile. In questo mistero sconfinato, l’altro viene sempre usato come personaggio chiave. Da ciò deriva il suo carattere bifronte: diavolo per alcuni, angelo per altri.
Senza l’altro non ci sarebbe nazionalismo. Lo spettro dell’altro come nemico – barbaro e crudele oltre ogni immaginazione – spinge la gente a raccogliersi sotto un’etnia, un vessillo, un’ideologia o una religione. È sempre l’ombra dell’altro a scatenare le guerre e a giustificarle.
Allo stesso modo, senza l’altro non si tenderebbe all’internazionalismo, né sarebbe possibile una visione dell’umanità come un’unica famiglia che abita su un pianeta generoso ma fragile. È grazie all’immigrato, all’outsider che cerca l’accoglienza di una nazione ospite, che nasce questa concezione di unità. Avendo una maggiore consapevolezza della propria lotta, e conoscendo ogni sorta di desolazione – e avendo una maggiore consapevolezza della desolazione che ognuno si porta dentro – l’immigrato cerca di dare senso a un’esistenza altrimenti incomprensibile, immaginando un mondo plurale in cui il pregiudizio sia stato sradicato.
Anche in letteratura l’altro, sotto forma di archetipo, ha un ruolo fondamentale. Sono certo che anche gli artisti che si dedicano ad altre discipline saranno d’accordo (ad esempio, Paula Rego, una delle nostre maggiori artiste figurative).
La maggior parte dei protagonisti e/o degli antagonisti in un romanzo, in un’opera, in una poesia, sono outsiders: dall’Ulisse dell’antichità a quello moderno, Leopold Bloom; da Didone di Cartagine a Sethe nel romanzo Beloved di Toni Morrison; da Otello a Don Chisciotte; dagli ebrei in fuga dal faraone ai profughi palestinesi nelle poesie di Mourid Barghouti. Sono tutti migranti.
Essendo gli archetipi non rappresentabili, diventano inevitabilmente figure mitiche. E dato che i miti sono le fondamenta della letteratura, proviamo a esplorare brevemente l’essenza del mito.
Jung afferma che “i miti sono storie di incontri archetipici”; che “le favole mitiche mostrano che cosa avviene quando un archetipo è libero di agire e non c’è intervento cosciente da parte dell’uomo; che “non inventiamo i miti, li viviamo”.
Direi di più: i miti sono più reali della realtà di tutti i giorni – che è sempre colorata di mito – perché i nostri governi e le multinazionali, ma anche i media, la distorcono continuamente con parole o atti castranti e violenti, o la nascondono dietro l’ipocrisia. Contro queste forze, i miti rappresentano un punto fermo nelle strutture concettuali, nei valori e nella morale.
Naturalmente, i miti possono essere strumentalizzati. O meglio: possono essere usati in modo da legittimare un sistema, una strategia o un’ideologia. E la strumentalizzazione può essere devastante.
È mia opinione, comunque, che i miti non corrotti, quelli che si sono evoluti dal nostro inconscio nell’arco dei millenni e che restano vitali – ogni cultura li possiede – non possano essere strumentalizzati.
Prendiamo il mito ariano dei nazisti e la sua ricerca di una morte kitsch. Che cosa lo rendeva un falso mito? Semplicemente il fatto che, sebbene l’indottrinamento lo facesse apparire ragionevole, non trovava àncora nell’inconscio, in quel regno in cui ha sede l’io etico. (Noi tendiamo a ignorare l’io etico. E tuttavia è innato, perché ha fornito tutte le proscrizioni morali di ogni religione). Sotto la sua superficie pseudo-darwiniana, e nonostante i tentativi di innumerevoli scienziati per legittimarlo, il mito ariano di una razza superiore in un mondo divorato dal cancro della presenza di esseri inferiori – gli ebrei, gli zingari, i negri, gli omosessuali, i disabili – era basata su una grossolana menzogna.
Non mi risulta che un mito non corrotto abbia mai causato persecuzioni. Ogni volta che un mito è stato usato a fini persecutori, la sua verità è stata distorta. La caccia alle streghe in Europa e in America e l’inquisizione spagnola ne sono solo due esempi.
Posso già sentire qualche moderno Pilato che domanda: “Che cos’è la verità?”
Forse conosciamo già la risposta. La verità è la consapevolezza dell’io etico e non avere paura a lasciarsi guidare da esso. La verità è qualunque cosa sveli la nostra propensione al male, e una volta svelata cerchi di guarirla.
Al pari degli “hitleriti” – così i rom definivano i nazisti – siamo più affascinati dalla morte che dalla vita. Di conseguenza, più spesso di quanto non si creda, siamo impegnati a sopprimere la verità per paura della nostra vera natura.
Fortunatamente per noi, è impossibile reprimerla.
La letteratura della diaspora – di qualunque epoca – ha cambiato enormemente non solo la società ospite, ma anche il mondo.
Al contempo, sono cambiati anche gli scrittori della diaspora.
La maggior parte dei cambiamenti è stata benefica.
Nel Regno Unito, gli scrittori della diaspora hanno portato dimensioni culturali e politiche più ampie. Hanno ravvivato una letteratura che stava disattendendo le ambizioni del suo grande passato. Hanno ampliato gli orizzonti di una nazione aggrappata bigottamente alla propria insularità e l’hanno mostrata a tutto il mondo, un mondo che essa aveva in gran parte colonizzato ma raramente arricchito, e spesso tradito con boriosa insolenza. Hanno riportato l’idealismo, ormai quasi ucciso dall’odierno ordine mondiale materialistico. Hanno sfidato gli adoratori senz’anima dell’abaco. E hanno affrontato narcisismo, cinismo, auto-compiacimento, ipocrisia e avidità sconfinata. Hanno portato nuove visioni di verità, colori, abissi, spettri, intuizioni – e compassione. Hanno portato nuovi orizzonti. Ci hanno arricchito con culture ignote o abbandonate. Hanno fatto ardere di nuovo in noi concetti universali, come la lotta per l’amore, per la libertà, per l’uguaglianza, e per il benessere comune. Ci hanno ricordato – risvegliando chi fra noi non voleva sapere – che le differenze tra i popoli sono superficiali, che indipendentemente dall’etnia, dal colore, o dal credo, piangiamo e ridiamo nello stesso modo e per le stesse ragioni.
Il mondo ha accolto Omero, Ovidio, Michelangelo, Einstein, Mann, Hikmet, Neruda, García Márquez. Il Regno Unito ha accolto Conrad, Freud, Berlin, Koestler, Rushdie, Walcott, Harris, Soyinka, Okri.
Prima accennavo al “fascismo emotivo”, che genera finzione psicotica come verità oggettiva. Vorrei tornare su questo concetto per far luce su come la politica della nuova era si evolva confrontandosi con l’altro, non solo nel Regno Unito ma ovunque nel mondo.
L’altro in quanto essere diabolico può essere creato ad arte. Ricorderete la famosa frase di Karl Lüger, sindaco di Vienna dal 1897 al 1910: “Lo decido io chi è ebreo e chi non lo è!”
Ma preservare l’immagine ostile dell’altro, e perpetuarla, richiede una pianificazione attenta. Richiede la creazione di una falsità credibile. Richiede la sua continua ripetizione, fino a quando non riuscirà a ottenebrare la ragione e si imporrà come verità. Richiede finzione psicotica.
Ciò che è avvenuto nel Regno Unito è un buon esempio di come i politici possano diffondere la finzione psicotica come verità oggettiva. Qualche anno fa il Right Honourable Jack Straw, uno dei rappresentanti più indulgenti e progressisti del New Labour, allora Ministro degli Interni, decise di arrestare la marea di rifugiati zingari provenienti dalla Slovacchia decretando che nessuno slovacco poteva entrare nel Regno Unito senza un visto. La ragione che fornì, nella sua onniscienza, fu che quegli zingari non stavano sfuggendo alle persecuzioni, ma venivano a cercare lavoro; e se non ci fossero riusciti, avrebbero sfruttato il nostro sistema di welfare. Li definì “emigranti economici”, acuta sintesi di un’epoca in cui il possesso è diventato l’ethos primario.
Questa è finzione psicotica. Non solo nega la ricchezza che gli immigrati portano e/o generano in ogni nazione del mondo – come hanno sempre fatto nell’arco della storia – ma afferma che si tratta di barbari che cingono d’assedio le nostre mura con l’intenzione di invaderci, di rubare le nostre ricchezze e di fare scempio delle nostre donne. Una finzione psicotica che insinua che il sangue puro del mondo civile “più bianco del bianco” rischia di venire appestato da sangue alieno. Una finzione psicotica che cerca di nascondere spudoratamente il fatto che in molti casi la migrazione umana avviene proprio perché, durante la storia del suo colonialismo rapace, il mondo civile “più bianco del bianco” ha, se non proprio sterminato o decimato intere popolazioni, certamente dissanguato interi paesi delle loro risorse e schiacciato le speranze dei loro abitanti. Una finzione psicotica che cerca di farci dimenticare che è proprio l’impoverimento causato dalla nostra civiltà “immacolata” che obbliga i migranti a migrare, per cercare di costruirsi una vita vagamente dignitosa. Una finzione psicotica che nega – ancor più ignobilmente – che le nostre civiltà “più bianche del bianco” devono interamente la loro ricchezza, la loro salute e la possibilità di cercare la felicità proprio al lavoro – sempre crudelmente sottopagato e ignorato con disprezzo – dei migranti; gli stessi che hanno impoverito e che adesso usano per i lavori più umili. E, non meno importante, una finzione psicotica che sorvola in modo criminale sul fatto che i nostri governi “più bianchi del bianco”, scegliendo di tenere qualcuno fuori dai loro confini, stabilendo quote irresponsabili, stanno cercando di distruggere coloro ai quali hanno rubato il patrimonio.
Qual è dunque il modo di combattere la finzione psicotica che Straw e quelli come lui producono con la loro contabilità?
Semplicemente sfidandoli. Dando il benvenuto agli immigrati. Sentendoci orgogliosi del fatto che scelgano il nostro paese per la loro nuova vita. Abbattendo le barriere. Eliminando i confini. Riscoprendo il vero significato della parola “asilo”. E costruendo ponti.
Dall’offerta di asilo alla costruzione di ponti per gli insabbiati – sarebbe una splendida rivoluzione. Quanto sarebbe positiva per lo spirito vitale e attivo di coloro che stanno cercando di trovare se stessi e insieme di arricchire la nazione che li ha adottati. Una vecchia leggenda rom, evocata in modo superbo dal poeta Rajko Djuric´, racconta di un tempo in cui Dio, avendo pietà degli uomini, costruì un ponte tra la vita e la morte, in modo da creare un ciclo eterno di rigenerazione. Oggi, all’inizio di un periodo storico distruttivo e ancor più pericoloso, abbiamo un’immensa necessità di costruire ponti. Perché oggi è la rigenerazione stessa ad essere in pericolo. Oggi il ciclo della vita e della morte si è ridotto a un ciclo di sopravvivenza ed estinzione. O meglio, il ciclo si sta disintegrando. Una combinazione di guerre interminabili, alimentate dall’odio ideologico, religioso, nazionalistico, etnico – e spesso da tutti e quattro insieme – e l’avidità insaziabile dei paesi ricchi, che impunemente e a sangue freddo sprofondano quelli poveri nella miseria, ha esaurito l’impulso vitale del ciclo. Oggi la distruzione di massa di popoli e civiltà è diventata una legge del mondo. Come la distruzione galoppante delle risorse del pianeta. Oggi, il futuro indossa il sudario dell’estinzione. E, come dice il proverbio ebraico, un sudario non ha tasche.
L’estinzione, lasciate che lo ricordi, è definitiva. È non-generativa. È il nulla in cui non può germogliare alcun seme. Se non riconosciamo la realtà della “vera storia”, la fine dell’umanità, della creazione, del pianeta stesso incombe su di noi.
Quali ponti possiamo costruire per salvare la Terra e noi stessi dall’estinzione? La mia risposta è evidente: ponti culturali; ponti che ci uniscano all’altro.
A differenza della globalizzazione del mercato, che in nome della concorrenza permette alle multinazionali di schiavizzare i paesi poveri, di distruggere le risorse del pianeta e di riempire di soldi le tasche di un’élite, le culture colmano lo spirito. A differenza dei regimi tirannici e degli uomini corazzati in uniformi militari e religiose che credono si debba governare con la forza, la discriminazione e l’odio, le culture diffondono rispetto, amore per le persone, e ammirazione per la creatività e la differenza.
La cultura è, di fatto, l’unico aspetto della vita che, onorando la Creazione per la sua capacità di creare eternamente, dà un senso all’esistenza. Dove c’è creatività, l’estinzione non ha potere.
Il dovere dell’artista è costruire e ricostruire questi ponti. È la nostra ragion d’essere. E dobbiamo onorare quest’obbligo. Anzi, dobbiamo trasformare noi stessi in ponti. Visto che la desolazione è in noi, dobbiamo affrontare il compito primario di amare la vita creando opere che ne siano la celebrazione.
Per molti versi costruire ponti culturali è semplice. Molti di noi ancora sentono la lotta interiore che ci permette di essere onesti con il nostro io etico. Siamo nati per amare, per cercare la ricchezza nel rapporto con l’altro, per riconoscere la brutalità che è insita in noi e redimerla con la compassione. Siamo sempre pronti ad aprire i nostri cuori all’esistenza e alle sue meraviglie.
Tuttavia la cultura, con la sua ricerca dell’eterna soluzione al dissidio tra bene e male, è fragile. E lo sono anche i ponti culturali. Sta a noi proteggere, in ogni angolo del mondo, l’eternità che portano. Forse ricorderete la frase profetica di Heinrich Heine, divenuta parte del nostro inconscio: “Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”. Oggi potremmo parafrasare: “Dove si distruggono le culture, si finirà per distruggere anche il mondo”.
Cerchiamo di comprendere che i milioni di altri, mentre creano i loro doni, offrono al mondo due anime, non una sola: l’anima della loro cultura e l’anima del paese che li ospita.
E il potere che nasce dall’unione di due anime è infinito.
Published 30 April 2007
Original in English
Translated by
Giulia Tiradritti
First published by Lettera internazionale 91 (2007), pp. 37-40 (Italian version); Index on Censorship 2/2006 (English version)
Contributed by Index on Censorship © Moris Farhi/Index on Censorship Eurozine
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