Perché siamo post-secolari
Èuna vera, importante battaglia culturale quella che secondo il filosofo tedesco Jürgen Habermas si sta combattendo sul fronte del rapporto tra cultura/religione e sfera pubblica. Rilanciando la validità della distinzione laici-laicisti, lo studioso francofortese, in questo articolo inedito, mette in guardia da chi vuole confinare le religioni – e con esse preziose risorse di senso – nella dimensione privata. E avanza una provocazione: “Io mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicistica della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalistica dei cittadini credenti”.
Per potersi definire post-secolare, una società deve prima essere stata secolare. Dunque l’espressione può soltanto riferirsi alle società europee o a nazioni come Canada, Australia e Nuova Zelanda, i cui cittadini hanno visto in misura continua (e dopo la seconda guerra mondiale persino drastica) allentarsi i loro vincoli religiosi. In questi paesi, la coscienza di vivere in una società secolarizzata si è diffusa in maniera più o meno generale. Se commisurate ai tradizionali indicatori sociologici, le condotte e le convinzioni religiose delle popolazioni locali non si sono finora modificate in forma tale da poter qualificare queste società come postsecolari. Qui, infatti, anche le nuove forme de-istituzionalizzate e spiritualizzate di religiosità non riescono a compensare le rilevanti perdite delle grandi comunità religiose1.
Il dibattito sulla secolarizzazione
Ciò nondimeno, drammatici cambiamenti globali e conflitti scatenati su questioni religiose ci fanno dubitare del fatto che si stia riducendo, come si dice, la rilevanza della religione. La vecchia e già indiscussa tesi di un legame intrinseco tra modernizzazione della società e secolarizzazione della popolazione trova oggi sempre meno sostenitori tra i sociologi2. Questa tesi, com’è noto, poggiava su tre ordini di considerazioni.
In primo luogo, il progresso tecno-scientifico promuove una visione antropocentrica dei nessi causali “disincantati”, cioè di un mondo empiricamente spiegabile; e una coscienza scientificamente rischiarata risulta difficilmente conciliabile alle immagini teocentriche o metafisiche del mondo. In secondo luogo, per effetto della differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali, le chiese e le comunità religiose perdono il controllo su diritto, politica, assistenza sociale, cultura, educazione e scienza; restringendosi alla loro genuina funzione di amministratrici dei beni-di-salvezza, esse riducono l’esercizio della religione a una faccenda privata, e perdono così di rilevanza e di influenza pubblica. Infine, il passaggio dalle società agricole alle società industriali e post-industriali ha generalmente creato alti livelli di benessere e crescente sicurezza sociale; così, liberato dai rischi esistenziali e tranquillizzato nella sua sicurezza, il singolo individuo può ora fare a meno di una pratica che gli prometteva di padroneggiare la contingenza tramite comunicazione con forze dell’aldi- là oppure con sostanze cosmiche.
Da almeno due decenni a questa parte – benché apparentemente confermata dagli sviluppi delle società europee – la tesi della secolarizzazione è oggetto di accese controversie nella comunità dei sociologi3. Sulla scia di una critica – non del tutto ingiustificata – alla parzialità della prospettiva eurocentrica, c’è stato persino chi ha parlato di una “fine della teoria della secolarizzazione”4. Per molto tempo gli Stati Uniti d’America erano apparsi come l’eccezione più rilevante al diffondersi della secolarizzazione: rappresentavano la punta d’acciaio di una modernizzazione che si sposava a vitalissime comunità di fedeli e a non diminuite percentuali di cittadini attivi sul piano religioso e sociale. Ora invece, inquadrati nel contesto globale delle altre culture e religioni mondiali, essi ridiventano un caso normale.
Se accettiamo questa prospettiva revisionista, allora è lo sviluppo europeo a presentarsi come il caso fuori norma. L’Europa, che col suo “razionalismo occidentale” avrebbe dovuto presentarsi come un modello per il resto del mondo, ha finito invece per diventare il Sonderfall, l’eccezione5. L’impressione di una “rinascita della religione” a livello mondiale deriva soprattutto da tre fenomeni convergenti: l’espansione missionaria delle grandi religioni mondiali, la loro radicalizzazione fondamentalistica, la strumentalizzazione politica dei loro potenziali di violenza.
(a) Sintomo di vitalità è anzitutto il fatto che guadagnino terreno, nel quadro delle chiese e delle comunità religiose esistenti, le correnti più ortodosse e conservatrici. Ciò vale per buddismo e induismo non meno che per le tre religioni monoteistiche. Colpisce soprattutto il diffondersi locale di queste religioni consolidate nei paesi dell’Africa e dell’Asia orientale e sud-orientale. Il successo missionario dipende certamente anche dalla flessibilità delle forme organizzative. Il multiculturalismo del cattolicesimo romano si adatta alla crescente globalizzazione assai meglio delle chiese protestanti, le quali – costituite come sono in forma nazionale – appaiono essere i veri sconfitti di questo processo. Lo sviluppo più dinamico va ascritto alle reti decentralizzate dell’Islam (soprattutto nell’Africa sub-sahariana) e delle sette evangelicali (soprattutto nell’America latina). Esse si caratterizzano per una religiosità di tipo estatico, ispirata dalle figure carismatiche dei leader.
(b) I movimenti religiosi in più rapida crescita, come i pentecostali e gli islamici radicali, sono quelli che più facilmente potremmo definire “fondamentalistici”. Lottano contro la modernità o se ne ritraggono. Il loro culto combina spiritualismo e attesa dell’avvento con una rigida precettistica morale e con un’adesione letterale al testo biblico. Per contro, i nuovi “movimenti” religiosi sorti improvvisamente dopo gli anni Settanta risultano caratterizzati da un sincretismo di tipo “californiano”. Essi condividono tuttavia con gli evangelicali la forma de-istituzionalizzata delle pratiche religiose. In Giappone sono nate circa 400 di tali sette, mescolanti elementi del buddismo e della religiosità popolare con dottrine esoteriche e pseudo-scientifiche. Nella Repubblica popolare cinese le repressioni statali contro la setta dei Falun-Gong ha attratto l’attenzione sul grande numero di “nuove religioni”, i cui seguaci si pensa assommino a più di 80 milioni6.
(c) Il regime dei mullah iraniani e il terrorismo islamico sono solo gli esempi più vistosi dello scatenarsi politico di potenziali religiosi di violenza. Spesso l’etichetta religiosa fomenta conflitti di diversa origine profana. Ciò vale per la “de-secolarizzazione” del conflitto mediorientale, così come per la politica del nazionalismo hindu e il perdurante scontro India-Pakistan7, e persino ancora per la mobilitazione della destra religiosa americana prima e dopo l’invasione dell’Iraq.
Descrizione e norme
Non entro qui nei dettagli del dibattito sociologico sul presunto Sonderweg europeo rispetto alla rinascita religiosa della società mondiale. Io ho l’impressione che i rilevamenti statistici continuino a dare ragione a chi difende la tesi della secolarizzazione8. Le debolezze di questa teoria dipendono piuttosto dai corollari che se ne traggono, e che tradiscono un’insufficiente messa a fuoco dei concetti di “secolarizzazione” e di “modernizzazione”. Certo è che – col progressivo differenziarsi dei sistemi sociali – chiese e comunità religiose si sono ristrette alla loro funzione pastorale, essendo state costrette a rinunciare alle altre competenze nelle diverse sfere della società. Nello stesso tempo, anche le pratiche di fede si sono ritirate sul piano individuale e soggettivo. Insomma, allo specificarsi del “sistema religione” fa riscontro un’individualizzazione della pratica religiosa.
Se non ché José Casanova ha giustamente sottolineato come la religione non perda necessariamente di significato e di rilevanza – né in sede politica, né in sede culturale, né nell’esistenza personale – per il solo fatto di aver mutato funzione e di essersi privatizzata9. A prescindere dal loro peso numerico, le comunità religiose continuano ad avere un loro “posto” anche nella vita di società largamente secolarizzate. In questo senso, la coscienza pubblica europea può essere descritta come una “società post-secolare” in quanto, almeno per il momento, essa accetta “il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato”10. Questa nuova lettura della secolarizzazione non ne capovolge la sostanza; essa riguarda il prevedibile ruolo futuro della religione. Quando descriviamo le società moderne come “post-secolari”, ci riferiamo a una trasformazione della coscienza che è riconducibile a tre fattori principali.
In primo luogo, la percezione che i media offrono di conflitti globali religiosamente connotati modifica profondamente la coscienza pubblica. In realtà, non c’è neppure bisogno dell’invadenza dei movimenti fondamentalistici, o della paura di un terrorismo religiosamente ammantato, per rendere consapevole la maggioranza dei cittadini europei della relatività della propria coscienza secolarizzata nel quadro dell’orizzonte mondiale. Questa relatività mina la convinzione “laicistica” di una prevedibile scomparsa della religione e toglie ogni trionfalismo alla visione secolarizzata del mondo. La coscienza di vivere in una società laica non si sposa più, automaticamente, alla certezza che la modernizzazione socio-culturale avanzerà al prezzo di una diminuita rilevanza pubblica e personale della religione.
In secondo luogo, anche all’interno delle sfere pubbliche nazionali la religione appare sempre più influente. E qui penso non tanto alla capacità che hanno le chiese di autopromuoversi sui media, quanto piuttosto al fatto che le comunità religiose assumono progressivamente, nella vita politica, il ruolo di “comunità della interpretazione”11. Esse possono – su temi determinati – influenzare la formazione pubblica dell’opinione e della volontà, fornendo contributi che risultano ogni volta importanti a prescindere dal fatto che siano anche più o meno convincenti.
Di fronte a questi interventi, le nostre società – così ideologicamente plurali e sempre più divise da conflitti valoriali che chiedono soluzioni politiche – formano una sensibile “cassa di risonanza”. Nei conflitti attinenti a questioni come legalizzazione dell’aborto e cure terminali, problemi bioetici della medicina riproduttiva, questioni di tutela animale e variazioni climatiche, noi ci misuriamo con un quadro argomentativo così ampio e complesso, che non possiamo mai sapere in via pregiudiziale quale partito disponga delle giuste intuizione morali.
Del resto, la presenza vitale di religioni straniere finisce anche per accrescere l’attenzione goduta dalle confessioni indigene. I musulmani della porta accanto – se mi è concesso da cittadino tedesco riferirmi all’esempio dei vicini olandesi – obbligano i cristiani a confrontarsi con una pratica religiosa rivale. E anche i cittadini laici devono prestare più attenzione al fenomeno di una religione emergente sul piano pubblico.
Il terzo fattore modificante la mentalità delle popolazioni sta nell’immigrazione di chi, in cerca di lavoro e di asilo, proviene da paesi con culture tradizionalmente premoderne. Fin dal cinquecento l’Europa ha dovuto imparare a convivere con scissioni religiose all’interno della propria società e della propria cultura. Ora, per via dell’immigrazione, le stridenti dissonanze tra religioni diverse si coniugano con la sfida di un pluralismo delle forme di vita che è tipico di tutte le società di accoglienza. In Europa – che sta faticosamente trasformandosi in una società post-coloniale dell’immigrazione – il problema della tollerante convivenza di religioni diverse viene reso più acuto da quello dell’integrazione sociale delle culture immigrate. La globalizzazione dei mercati del lavoro rende ancora più difficile questa integrazione: essa deve infatti venire a capo di una crescente e invereconda disuguaglianza sociale. Ma questa storia sta su un’altra pagina Finora, adottando la prospettiva dell’osservatore sociologico, ho cercato di rispondere alla domanda perché si possano chiamare “post-secolari” società che sono, per altro verso, largamente secolarizzate. In queste società la religione mantiene una rilevanza pubblica, laddove perde progressivamente terreno la certezza laicistica che vede la religione sparire dal mondo per effetto della modernizzazione. Ma se noi adottiamo la prospettiva del partecipante, allora la domanda diventa un’altra, di tipo normativo: come dobbiamo [sollen] vedere noi stessi in quanto membri di una società post-secolare? E cosa dobbiamo [müssen] reciprocamente attenderci l’uno dall’altro, affinché – all’interno di nazioni in cui cresce il pluralismo ideologico e culturale – possa essere salvaguardato un reciproco civile rispetto?
Tutte le società europee si trovano oggi confrontate con questo problema. Mentre sto preparando questa relazione, leggo per esempio sui giornali del weekend tre notizie del tenore seguente. Il Presidente Sarkozy manda altri 4000 poliziotti a fronteggiare i disordini dei giovani algerini nella banlieue parigina. Il vescovo di Canterbury suggerisce al legislatore britannico di adottare, per i musulmani residenti nel Regno Unito, parti del diritto di famiglia islamico. Un incendio scoppiato per cause non ancora accertate nella Germania federale, a Ludwigshafen – dove muoiono nove turchi, tra cui quattro bambini – suscita sui giornali della Turchia un’ondata di sospetti e di rabbia; il che induce il Primo Ministro turco a fare una visita in Germania, durante la campagna elettorale; ma ecco che un suo infelice discorso ai connazionali nello stadio di Colonia suscita a sua volta sarcastiche reazioni sulla stampa tedesca.
Questi dibattiti di autochiarificazione hanno assunto un tono più stridulo dopo lo shock dell’11 settembre 2001. Il 2 novembre 2004, in Olanda, l’uccisione di Theo van Gogh scatenò un’appassionata discussione pubblica non soltanto sulla vittima, ma anche su Mohammed Bouyeri, l’assassino, e su Ayaan Hirsi Ali, il vero obbiettivo della furia omicida12. Il dibattito scavalcò le frontiere del paese e accese una disputa a livello europeo13. Qui mi interessano soprattutto gli assunti impliciti che hanno reso così esplosivo questo scontro teorico sull'”islam in Europa”. Prima però di affrontare il nucleo filosofico delle reciproche accuse, lasciatemi disegnare più chiaramente il comune punto di partenza condiviso da entrambe le parti, ossia il principio dell’accettata separazione tra Stato e Chiesa.
Modus vivendi e cittadinanza condivisa
La secolarizzazione del potere statale fu la risposta appropriata alle guerre di religio- ne della prima modernità. Nei vari ordinamenti giuridici nazionali, il principio della separazione di Stato e Chiesa trovò realizzazione progressiva e diversificata. Nella misura in cui il potere statale si secolarizzava, le minoranze religiose – che all’inizio venivano semplicemente tollerate – acquisivano sempre ulteriori diritti. Si passava così dal diritto di fede nell’intimo della coscienza al diritto di dichiarare in pubblico la propria religione e, infine, al diritto di esercitare pubblicamente il proprio culto. Ripensare a questo lungo processo storico, che si è protratto fin dentro il XX secolo, ci aiuta a capire i presupposti della dispendiosa conquista civile rappresentata da un’inclusoria libertà religiosa egualmente valida per tutti i cittadini.
Dopo la riforma protestante, lo Stato doveva anzitutto provvedere a pacificare una società scissa sul piano delle confessioni religiose, dunque a garantire sostanzialmente l’ordine pubblico. Nel contesto della discussione odierna, l’autrice olandese Margriet de Moor ha richiamato alla memoria dei connazionali le difficoltà di quegli inizi. “Noi associamo spesso la tolleranza all’idea di rispetto. Ma nel secolo XVI e XVII, le radici della nostra tolleranza non furono affatto rappresentate dal rispetto reciproco, tutt’altro. Noi odiavamo profondamente la religione di chi era diverso, cattolici e calvinisti non avevano nessun briciolo di rispetto per le credenze della parte avversa, e la nostra Guerra degli ottant’anni non fu soltanto una guerra combattuta contro la Spagna, ma anche una sanguinosa jihad dei calvinisti ortodossi contro i cattolici”14. Vedremo più avanti a quale tipo di rispetto stia pensando Margriet de Moor.
Rispetto ai problemi di ordine pubblico, il potere statale – ancorché intrecciato alla religione della maggioranza locale – era obbligato ad assumere atteggiamenti ideologicamente neutrali. Doveva disarmare le parti in conflitto, inventare assetti istituzionali per la pacifica convivenza delle confessioni rivali, monitorare i rischi di crisi. A livello di società, le subculture nemiche potevano chiudersi reciprocamente a riccio, restando sostanzialmente estranee l’una per l’altra. Orbene, fu proprio questo genere di modus vivendi – ecco il punto che mi interessa mettere in rilievo – a rivelarsi insufficiente nel momento in cui, a partire dalle rivoluzioni costituzionali del XVII secolo, nacque un nuovo ordinamento politico che assoggettò – simultaneamente – un potere statale compiutamente secolarizzato sia all’impersonale “dominio della legge” sia alla democratica “sovranità popolare”.
Lo Stato costituzionale può infatti garantire la libertà religiosa dei cittadini solo a patto che essi cessino di “chiudersi a riccio” dentro gli universi integralistici delle loro comunità religiose. A questo punto, tutte le subculture, non soltanto quelle religiose, devono liberare i singoli individui dal loro abbraccio totalitario, affinché essi possano reciprocamente riconoscersi nella società civile come “cittadini”, ossia come portatori e membri di una medesima comunità politica. Nel ruolo di cittadini dello Stato democratico, essi si danno le leggi grazie a cui possono reciprocamente tutelare e rispettare, nel ruolo di cittadini della società liberale, la loro identità culturale e ideologica. Questo nuovo rapporto tra Stato democratico, società civile e autonomia (sub)culturale diventa la chiave per intendere correttamente i due motivi che oggi si fanno la guerra, laddove invece dovrebbero imparare reciprocamente a integrarsi. Infatti, il progetto universalistico dell’illuminismo politico non contraddice per nulla le sensibilità particolari di un multiculturalismo bene inteso.
Già lo Stato liberale garantisce di per sé la libertà religiosa quale diritto fondamentale, in modo tale che le minoranze religiose non sono più semplicemente tollerate né dipendono più dalla benevolenza del dispotismo statale. Ma soltanto lo Stato democratico rende possibile l’applicazione imparziale di questo principio15. Quando, ad esempio, le comunità turche di Berlino, Colonia o Francoforte chiedono di togliere dai segreti cortili condominiali le loro stanze di preghiera, per edificare visibili moschee nella città, ciò che è in discussione non è più il principio in sé ma una sua equa applicazione. Quando desideriamo stabilire con ragionevoli e accettabili motivazioni ciò che si tratta o meno di tollerare, allora dobbiamo necessariamente fare appello alla procedura deliberativa e inclusoria di una democratica formazione della volontà. Il principio della tolleranza si sottrae al sospetto di una “benevola” condiscendenza solo a partire dal momento in cui le parti in conflitto si presentino come eguali nel mettersi reciprocamente d’accordo su un piede di parità16. Il confine tra libertà religiosa positiva, cioè il diritto di esercitare la propria fede, e libertà religiosa negativa, cioè il diritto di non subire interferenze da parte del culto altrui, sarà sempre una questione da ridiscutere. Ma in democrazia sono i cittadini direttamente coinvolti a dover decidere su se stessi (per quanto tramite i loro rappresentanti).
“Tolleranza” non è solo questione di produzione e applicazione di leggi; essa dev’essere anche praticata nella quotidianità. Tolleranza significa che credenti, non credenti e altrimenti credenti si concedono a vicenda convinzioni, pratiche e forme di vita che essi, per quanto li riguarda personalmente, non approvano affatto. Questa concessione deve poggiare sulla base comune di quel “reciproco riconoscimento” che consente di mettere tra parentesi (senza cancellarle) le dissonanze ripugnanti. Questo riconoscimento non va confuso con una “valutazione qualitativa” della cultura, delle convinzioni e delle pratiche estranee che vengono rigettate17. Abbiamo infatti bisogno di “tolleranza” solo riguardo alle visioni del mondo che riteniamo false, e solo riguardo ad abitudini di vita che ci ripugnano. La base-di-riconoscimento (Anerkennungsbasis) non significa apprezzamento valutativo di questa o quella qualità, di questa o quella prestazione, ma piuttosto la consapevolezza di far parte di una comunità inclusoria di cittadini giuridicamente equiparati: una comunità nella quale ciascuno è (responsabilmente) debitore verso l’altro delle proprie opinioni e iniziative politiche18.
Ora, tutto questo è più facile a dirsi che non a farsi. L’eguale inclusione di tutti i cittadini nella società civile, infatti, non richiede soltanto una cultura politica che ci salvaguardi dallo scambiare liberalità con indifferenza. Essa richiede anche il soddisfacimento di determinate precondizioni materiali, per esempio un’integrazione in asili, scuole e istituti superiori che neutralizzi gli svantaggi sociali di partenza, dando eguale accesso al mercato del lavoro. Ma ciò che in questa sede vorrei sottolineare è piuttosto l’immagine di una società inclusoria in grado di bilanciare tra loro “eguaglianza politica” e “differenza culturale”.
Finché, per esempio, molti cittadini tedeschi di origine turca e di fede islamica si trovano politicamente meglio nella loro vecchia patria che nella nuova, vengono a mancare – nella sfera pubblica e nelle urne elettorali della Germania – quelle voci compensatorie che sarebbero necessarie per allargare la cultura politica dominante. Finché le minoranze non vengano compiutamente incluse nella società civile, i due processi complementari non possono svilupparsi in maniera equilibrata e parallela: da un lato, l’aprirsi della comunità politica all’inclusione (riguardosa delle differenze e giuridicamente equiparata) delle diverse subculture; dall’altro, il liberale aprirsi di queste stesse subculture alla partecipazione (equiparata e individuale) dei loro singoli membri al processo democratico.
Multiculturalismo radicale vs. laicismo militante
Nel rispondere alla questione: “come dobbiamo pensarci quali membri di una società post-secolare?”, sarebbe opportuno adottare – quale indicatore – l’immagine di questi due processi interagenti. Sennonché i partiti ideologici che si stanno oggi fronteggiando non si preoccupano per nulla del carattere complementare di questi processi. Il partito dei multiculturalisti si batte per proteggere le identità collettive e accusa la controparte di essere una sorta di “fondamentalismo dell’illuminismo”. Per contro, i secolaristi insistono per includere senza compromessi le minoranze religiose dentro la cultura politica esistente e accusano la controparte di rappresentare un “multiculturalismo” ostile all’illuminismo.
I multiculturalisti lottano per adeguare rispettosamente il sistema giuridico alle pretese di eguale trattamento avanzate dalle minoranze religiose. Essi mettono in guardia dai pericoli dell’assimilazione forzata e dello sradicamento. Lo Stato laico non deve integrare le minoranze nell’egualitarismo civico in maniera tanto drastica da svellere i singoli individui dai loro contesti identitari. Vista in questa prospettiva comunitarista, un’astratta politica d’integrazione corre il rischio di assoggettare le minoranze agli imperativi della cultura di maggioranza. Sennonché oggi sono proprio i multiculturalisti a trovarsi con le spalle al muro e a doversi muovere controcorrente. “Non sono soltanto professori universitari, ma persino politici e giornalisti quelli che oggi considerano l’illuminismo come una sorta di fortezza da difendere contro l’estremismo islamico”19. Questo atteggiamento scatena, a sua volta, la reazione di chi critica ogni “fondamentalismo illuministico”. Per esempio, Timothy Garton Ash – nella New York Review of Books del 5 ottobre 2006 – sottolinea il fatto che ci sono “anche donne musulmane che rifiutano la maniera con cui Hirsi Ali accolla all’islamismo in generale – e non alle singole culture nazionali, regionali e tribali – la responsabilità della loro oppressione”20. Ed effettivamente, gli immigranti musulmani saranno integrabili nella società occidentale non a dispetto della loro religione, ma soltanto in armonia con essa.
Sull’altro versante, i secolaristi lottano per un’inclusione color-blind (culturalmente daltonica) di tutti i cittadini, a prescindere dalla loro origine culturale e dalla loro appartenenza religiosa. Questo partito mette in guardia dalle conseguenze di una politica identitaria che “pieghi” eccessivamente il sistema giuridico alle esigenze specifiche delle minoranze culturali. Da questa prospettiva laicista, la religione deve restare una faccenda esclusivamente privata. Così, per esempio, Pascal Bruckner rigetta i diritti culturali, in quanto essi finiscono per produrre vere e proprie società parallele: “piccoli gruppi catafratti, che obbediscono ognuno a norme diverse”21. Ma nel condannare globalmente il multiculturalismo come “razzismo dell’anti-razzismo”, egli colpisce in realtà soltanto quegli estremisti che invocano l’introduzione di diritti collettivi di tutela. Ed effettivamente, una simile “tutela della specie” per interi gruppi culturali finirebbe per mettere a repentaglio il diritto dei singoli membri a scegliersi un proprio modello di vita22. Entrambe le parti perseguono lo stesso obbiettivo: la civile convivenza di cittadini autonomi nel quadro di una società liberale. Esse, tuttavia, si accaniscono nella disputa di un Kulturkampf che a ogni piè sospinto si riaccende daccapo. Nonostante sia evidente la reciproca interazione dei due aspetti, entrambe le parti continuano a discutere se la tutela dell’identità culturale debba precedere le garanzie dell’inclusione civica oppure viceversa. Il tono stridulo della polemica deriva dalle premesse filosofiche che gli avversari – a torto o a ragione – si ascrivono a vicenda. Ian Buruma ha osservato giustamente come dopo l’11 settembre 2001 la disputa, prima soltanto accademica, su illuminismo e antiilluminismo, modernità e postmodernità, sia uscita dalle aule universitarie per entrare nelle piazze23. In realtà, sono piuttosto le problematiche convinzioni retrostanti a fomentare la disputa: da un lato un relativismo culturale imbellettato in maniera postmoderna (Vernunftkritisch), dall’altro lato un laicismo antireligioso e démodé.
Spesso la versione radicale del multiculturalismo si basa sull’idea sbagliata di una “incommensurabilità” tra visioni del mondo, discorsi, schemi teorici. All’interno di questa prospettiva contestualistica, anche le forme-di-vita culturali appaiono come universi semanticamente chiusi che tengono sotto controllo i loro – rispettivi e imparagonabili – criteri di verità. Ogni cultura viene perciò immaginata come una totalità semanticamente sigillata, cui è preclusa ogni intesa discorsiva con le altre culture. A prescindere dagli instabili compromessi, i conflitti culturali possono soltanto sfociare nell’assoggettamento o nella conversione. Se si adottano queste premesse, ogni pretesa universalistica di validità – come quella, per esempio, avanzata dal discorso della democrazia e dei diritti umani – è solo la maschera delle pretese imperialistiche di una cultura di maggioranza.
Paradossalmente, è proprio questa lettura relativistica a privarsi dei criteri che le consentirebbero di criticare l’ingiusto trattamento delle minoranze culturali. Nella nostra società postcoloniale aperta all’immigrazione, la discriminazione delle minoranze deriva generalmente da pregiudizi culturali che inducono ad applicare in maniera selettiva i principi della Costituzione. Ma se non prendiamo sul serio il senso universalistico di tali principi, allora ci viene anche meno la prospettiva che renderebbe visibile l’inquinamento clientelare e pregiudiziale con cui la cultura della maggioranza interpreta la Costituzione.
Sull’incoerenza filosofica della criticadella- ragione propugnata dal relativismo culturale postmoderno non è qui il caso di tornare24. Si tratta però di una posizione interessante anche per un altro motivo. Essa ci illumina sui veri motivi di certi voltagabbana che sono passati da sinistra a destra. Di fronte al terrorismo islamico, certi “multiculturalisti” di sinistra si sono presto trasformati in falchi guerrafondai e hanno finito per allearsi inaspettatamente con i “fondamentalisti dell’illuminismo” di tipo neo-con. Evidentemente, nella lotta contro l’islamismo, questi convertiti hanno continuato a vedere nell’illuminismo quella stessa “ideologia occidentale” che già in precedenza loro combattevano giudicandola priva di dimensione universalistica. “L’illuminismo è ora diventato di moda in quanto i suoi valori non sono soltanto universali, ma sono anche i valori nostri, cioè dell’Europa e dell’Occidente”25.
Naturalmente questa critica non si riferisce agli intellettuali laicisti di stampo francese per i quali l’epiteto di “fondamentalisti dell’illuminismo” fu inizialmente coniato. Tuttavia anche in loro, un certo zelo militante a difesa della tradizione universalistica dell’illuminismo si spiega a partire da un postulato filosofico assai discutibile. Nella loro prospettiva, la religione dovrebbe ritirarsi dalla sfera pubblica politica e restringersi all’ambito privato, in quanto sarebbe una figura storicamente superata dello spirito (dal punto di vista cognitivo). Certo, dal punto di vista normativo dell’ordinamento liberale, la religione non può – secondo loro – non essere tollerata; tuttavia essa non deve avanzare la pretesa di essere “presa sul serio” come risorsa culturale per l’autocomprensione dello spirito contemporaneo.
Apprendimento complementare
Agli occhi del laicismo radicale poco importa il rilevamento sociologico che registra, persino nelle società secolarizzate dell’Occidente, il nuovo ruolo della religione nella formazione politica dell’opinione e della volontà. Anche qualora si accetti come empiricamente corretta la qualifica di “postsecolare” riferita alle società dell’Europa occidentale, è possibile restare filosoficamente convinti che le religioni debbano la loro ininterrotta influenza all’ostinata sopravvivenza di forme premoderne del pensiero (una sopravvivenza che resterebbe poi da spiegare sul piano sociologico). Dal punto di vista dei laicisti, insomma, i contenuti di fede sono in ogni caso scientificamente screditati. E proprio questo atteggiamento scientistico li spinge a polemizzare con vivacità contro le tradizioni, persone e organizzazioni religiose che pretendono far valere un loro significato pubblico.
Qui vorrei fare una distinzione tra laico e laicista. La persona laica o non credente si comporta con indifferenza agnostica nei confronti delle pretese religiose di validità. Invece, nei confronti di dottrine religiose che conservano rilevanza pubblica a prescindere dalla loro infondatezza scientifica, i laicisti assumono un atteggiamento polemico. Oggi il laicismo si appoggia spesso a un naturalismo hard, cioè fondato su assunti scientistici. Diversamente dal caso del relativismo culturale, qui non ho bisogno di discutere i presupposti filosofici retrostanti26. In questo contesto mi interessa piuttosto chiedermi se una svalutazione laicistica della religione, nell’ipotesi venisse un giorno condivisa dalla grande maggioranza dei cittadini laici, sarebbe ancora conciliabile con quel bilanciamento postsecolare di “eguaglianza civica” e “differenza culturale” che ho disegnato poco fa. In altri termini, io mi chiedo se un’ipotetica mentalità laicistica della gran massa dei cittadini non finirebbe per essere – ai fini dell’autocomprensione normativa di una società post-secolare – altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalistica dei cittadini credenti. Questa domanda tocca, del disagio presente, radici più profonde di quanto non faccia il cosiddetto “dramma del multiculturalismo”. Ma di che problema si tratta veramente?
Il merito dei laicisti è quello d’insistere sulla necessità irrinunciabile di includere tutti i cittadini nell’egualitarismo della società civile. Siccome l’ordinamento democratico non può essere semplicemente imposto dall’alto ai suoi titolari, lo Stato costituzionale pone in realtà i suoi cittadini di fronte alle esigenti aspettative di un ethos-della-cittadinanza che va sempre “al di là” della mera ottemperanza alle leggi. Anche i cittadini e le comunità religiose non devono semplicemente “adattarsi” in maniera superficiale alla Costituzione. Essi devono fare propria la legittimazione secolare della comunità muovendo dalle stesse premesse della propria fede27. La Chiesa cattolica, com’è noto, si è convertita al liberalismo e alla democrazia solo a partire dal Concilio Vaticano secondo del 1965. E in Germania le chiese protestanti non si sono poi comportate molto diversamente. Molte comunità islamiche non hanno nemmeno cominciato ad affrontare questo doloroso processo di apprendimento. Ma anche nel mondo islamico cresce oggi la consapevolezza che diventi necessario un approccio storico-ermeneutico alle dottrine del Corano. Tuttavia, il dibattito sull’auspicabilità di un islam europeo ci fa capire, ancora una volta, come siano da ultimo le stesse comunità religiose a dover autonomamente decidere se nella fede riformata esse possano riconoscere la loro “fede vera”28.
Quando pensiamo alla traduzione riflessiva delle forme dogmatiche tradizionali ci viene alla mente quella trasformazione esemplare degli atteggiamenti epistemici compiuta – nelle chiese cristiane dell’Occidente – a partire dalla riforma protestante. Un simile cambiamento di mentalità non può essere imposto dall’alto, né manipolato politicamente, né prescritto giuridicamente: nella migliore delle ipotesi, esso è il frutto di un processo di apprendimento. E può apparire come un “processo di apprendimento” solo se noi adottiamo la prospettiva di un’autocomprensione secolarizzata della modernità. Pensando al tipo di mentalità che è presupposto dell’ethos democratico, noi tocchiamo i limiti di una teoria politica normativa cui spetta solo giustificare diritti e doveri. I processi di apprendimento possono essere favoriti e coltivati, ma non possono essere moralmente o giuridicamente prescritti29.
Ma non troviamo noi forse difficoltà analoghe anche nel partito avversario? Forse che non occorre un processo di apprendimento – oltre che sul versante del tradizionalismo religioso – anche sullo stesso versante del secolarismo? Le stesse aspettative normative che governano l’inclusione democratica non ci vietano forse di screditare laicisticamente la religione proprio come ci vietano di accettare, per esempio, la disparità religiosa di uomo e donna? In ogni caso, un processo complementare di apprendimento sul versante del secolarismo diventa necessario dal momento stesso in cui, di fronte alla concorrenza delle visioni religiose del mondo, non si interpreti più il secolarismo dello Stato come una mera esclusione dei contributi religiosi dalla sfera pubblica politica.
Certo, il potere di uno Stato che dispone dei legittimi strumenti di coercizione non dovrà mai aprirsi al conflitto delle diverse confessioni – pena il trasformarsi del governo nell’organo esecutivo di una maggioranza religiosa che mette il bavaglio all’opposizione. Nello Stato costituzionale, tutte le norme giuridicamente emanabili devono essere formulate e giustificate in un linguaggio comprensibile a tutti i cittadini. Tuttavia, la neutralità ideologica dello Stato non vieta affatto di ammettere contributi religiosi all’interno della sfera pubblica politica, purché il processo istituzionale di “decision-making” a livello parlamentare, giudiziario, ministeriale e amministrativo rimanga sempre nettamente separato dalla informale partecipazione dei cittadini alla comunicazione pubblica e alla formazione dell’opinione. Il principio della “separazione di Stato e Chiesa” richiede un filtro tra queste due sfere: un filtro attraverso il quale pervengano alle agende formalizzate delle istituzioni statali soltanto i contributi che, tratti fuori dalla babilonica confusione linguistica della sfera pubblica, siano stati preventivamente tradotti in linguaggio secolare.
Due ordini di motivazioni parlano in favore di questa liberale apertura. In primo luogo, bisogna permettere di partecipare – anche in lingua religiosa – alla formazione politica della volontà anche alle persone che non sappiano, o non desiderino, scindere le loro convinzioni morali e i loro vocabolari in una componente profana e in una componente religiosa. In secondo luogo, è opportuno che lo Stato democratico non riduca preventivamente la complessità polifonica delle diverse voci pubbliche, in quanto esso non può mai sapere se, così facendo, non stia privando la società di risorse utili alla fondazione del senso e dell’identità. Soprattutto riguardo a settori vulnerabili della convivenza sociale, le tradizioni religiose dispongono della capacità di articolare in maniera convincente sensibilità morali e intuizioni solidaristiche.
A questo punto, ciò che mette alle strette il secolarismo è l’aspettativa per cui i cittadini laici dovrebbero confrontarsi con i loro concittadini religiosi – nella società civile e nella sfera pubblica politica – prendendo sul serio la loro fede e su un piede di perfetta parità. Se nell’incontrare i concittadini religiosi, i laici dovessero pensare di non poterli prendere sul serio come contemporanei della modernità per via del loro atteggiamento religioso, allora si ricadrebbe sul piano di un mero modus vivendi e si perderebbe quella base di mutuo riconoscimento che è costitutiva della cittadinanza. Dunque i laici non devono escludere a priori la possibilità di scoprire, nei contributi religiosi, dei contenuti semantici – in qualche caso, persino proprie intuizioni inespresse – che sono suscettibili di essere utilmente tradotti sul piano dell’argomentazione pubblica.
Così, nell’ipotesi che tutto funzioni felicemente, entrambe le parti dovranno impegnarsi – ciascuna dal suo punto di vista – a interpretare il rapporto “fede-ragione” in maniera tale da rendere possibile una convivenza riflessivamente illuminata.
D. Pollack, Säkularisierung -- ein moderner Mythos?, Mohr Siebeck, Tübingen 2003.
H. Joas, Gesellschaft, Staat und Religion, in Idem, a cura di, Säkularisierung und die Weltreligionen, Fischer, Frankfurt-Main 2007, 9-43.
J. Hadden, Towards desacralizing secularization theory, in "Social Force", vol. 65, 1987, 587-611.
H. Joas, Gesellschaft, Staat und Religion, cit.
P.L.Berger, in Idem, a cura di, The Desecularization of the World: A Global Overview, Grand Rapids, Michigan, 2005, 1-18.
J. Gentz, Die religiöse Lage in Ostasien, in Joas (2007), 358-375.
Cfr. i contributi di H.G.Kippenberg e H.v. Stietencron raccolti in Joas (2007), 465-507 e 194-223.
P. Norris, R. Ingelhart, Sacred and Secular. Religion and Politics Worldwide, Cambridge University Press, Cambridge, 2004.
J. Casanova, Public Religions in the Modern World, University of Chicago Press, Chicago 1994.
J. Habermas, Glauben und Wissen, Sonderdruck edition Suhrkamp, Frankfurt-Main 2001, 13 [traduzione italiana Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002, 101].
Francis Schlüsser Fiorenza, The Church as a Community of Interpretation, in D. Browing e F. Schlüsser Fiorenza, a cura di, Habermas, Modernity, and Public Theology, Crossroad, New York, 1992, 66-91.
G. Mak, Der Mord an Theo van Gogh. Geschichte einer moralischen Panik, Suhrkamp, Frankfurt-Main, 2005.
Th. Chervel, A. Seeliger, a cura di, Islam in Europa, Suhrkamp, Frankfurt-Main, 2007.
M. de Moor, Alarmglocken, die am Herzen hängen, in Chervel, Seeliger, a cura di, (2007), 211.
Sul piano storico e sistematico si veda l'esauriente lavoro di R. Forst, Toleranz im Konflikt, Suhrkamp, Frankfurt-Main, 2003.
J. Habermas, Religiöse Toleranz als Schrittmacher kultureller Rechte, in Idem, Zwischen Naturalismus und Religion, Suhrkamp, Frankfurt-Main, 2005, 258-278 [traduzione italiana in "MicroMega. Almanacco di filosofia" 5/2003, 311-328; una diversa versione anche in J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma- Bari, 2006, 151-170].
Cfr. la mia discussione con Charles Taylor in J. Habermas, Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat, raccolto in Idem, Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt-Main, 1996, 237- 276 [trad. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 1998].
Sull'uso pubblico della ragione cfr. J. Rawls, Political Liberalismus (1993), traduzione tedesca Suhrkamp, Frankfurt-Main, 1998, 312-366.
I. Buruma, Die Grenzen der Toleranz, Carl Hanser Verlag, München, 2006, 34.
Thimothy Garton Ash, in Chervel, Seeliger, a cura di, (2007), 45 sgg.
P. Bruckner, in Chervel, Seeliger, a cura di, (2007), 67.
P. Bruckner, op.cit., 62: "Il multiculturalismo concede pari trattamento alle comunità ma non agli individui che le compongono. Esso infatti nega ai singoli individui la libertà di sciogliersi dalle loro tradizioni vincolanti". Cfr. B. Barry, Culture and Equality, Polity, Cambridge UK, 2001; J. Habermas, Kulturelle Geichbehandlung und die Grenzen des Postmodernen Liberalismus, in Idem, Zwischen Naturalismus und Religion, Suhrkamp, Frankfurt-Main, 2005, 279-323 [trad. it. in J. Habermas, Tra scienza e fede, cit., 171- 213].
Buruma (2006), 34.
Una critica definitiva alla tesi dell'incommensurabilità è già rintracciabile in D. Davidson, On the very Idea of a Conceptual Scheme (1973), traduzione tedesca in D. Davidson, R. Rorty, Wozu Wahrheit?, Suhrkamp, Frankfurt-Main 2005, 7-26.
Buruma (2006), 34. I motivi di questi rinnegati di sinistra vengono così descritti da Buruma: "Gli islamici sono quelli che rovinano il gioco presentandosi alla festa senza essere stati invitati...Anche per i progressisti olandesi la tolleranza ha dei limiti. È facile essere tolleranti con quelli di cui sentiamo di poterci fidare, con quelli il cui spirito e la cui ironia possiamo in ogni caso condividere... Molto più difficile è applicare il principio della tolleranza a persone che vivono in mezzo a noi, ma che disprezzano i nostri stili di vita così come noi disprezziamo i loro" (ibidem, 123 sgg.).
Cfr. i miei contributi critici in H.P. Krüger, a cura di, Hirn als Subjekt? Philosophische Grundfragen der Neurobiologie, Akademie Verlag, Berlin, 2007, 101-120 e 263-304.
Su ciò richiama l'attenzione John Rawls, quando presenta un overlapping consensus come la sostanza normativa dell'ordinamento costituzionale; cfr. Rawls (1993, traduzione tedesca citata 219-264).
I. Buruma, Wer ist Tariq Ramadan, in Chervel, Seelinger (2007), 88-110; B. Tibi, Der Euro-Islam als Brücke zwischen Islam und Europa, ibidem, 183-199.
Su ciò cfr. J. Habermas, Religion in der Öffentlichkeit normalmente si dice evangelici, non so se si riferisce ad un particolare gruppo.
Published 1 September 2008
Original in German
Translated by
Leonardo Ceppa
First published by Reset 108 (2008) (Italian version), Blätter für deutsche und internationale Politik 4/2008 (German version)
Contributed by Reset © Jürgen Habermas / Reset / Eurozine
PDF/PRINTNewsletter
Subscribe to know what’s worth thinking about.