Per la politica è diventata inutile
Nel XVIII secolo, durante l’Illuminismo europeo, le differenze tra istituzioni politiche e quelle tra movimenti di pubblica opinione riflettevano, in effetti, differenti visioni filosofiche. Era meno probabile che i sostenitori dell’ordine costituito fossero degli atei materialisti di quanto non potessero esserlo coloro che volevano un cambio sociale rivoluzionario. Ma non è più questo il caso, ora che i valori dell’Illuminismo sono per lo più dati per scontato, in Occidente. Al giorno d’oggi la politica è la battistrada e la filosofia le si accoda. Prima uno decide in base a una prospettiva politica e poi, se ha il gusto per quel genere di cose, va in cerca di una base filosofica. Questo gusto, però, è opzionale, e piuttosto eccentrico. La maggior parte degli intellettuali occidentali sa poco di filosofia, e se ne interessa ancora meno. Ai loro occhi, pensare che indirizzi politici riflettano convinzioni filosofiche è come pensare che sia la coda a muovere il cane di qua e di là.
Malgrado questo fatto, ci si imbatte ancora in discussioni tra filosofi il cui oggetto è se la democrazia abbia “fondazione filosofica” e in cosa questa potrebbe consistere. Non considero tali discussioni molto utili. Per capire perché si tengono ancora è d’aiuto ricordare il punto con cui ho cominciato: che quando scoppiarono le rivoluzioni democratiche del diciottesimo secolo, la disputa tra religione e filosofia aveva un’importanza che ora non ha più. Per questo quelle rivoluzioni non potevano fare appello al passato. Non potevano far riferimento ai successi riportati dai regimi democratici e laici. Infatti, regimi di questo tipo ce n’erano stati pochi e non sempre avevano dato buona prova di sé. Così, l’unica possibilità fu giustificare quelle rivoluzioni facendo riferimento a principi, principi filosofici. La ragione, dicevano, aveva rivelato l’esistenza di diritti umani universali, per questo una rivoluzione era chiamata a porre la società su basi razionali.
Nel XVIII secolo si pensava che la “ragione” fosse quello che gli anti-clericali avevano per compensare la mancanza di ciò che il clero chiamava “fede”. Infatti, i rivoluzionari di quei tempi erano necessariamente anti-clericali. Uno dei principali motivi di rimostranza era costituito dall’aiuto che il clero aveva fornito alle istituzioni feudali e monarchiche. È noto, per esempio, che Diderot sognava di vedere l’ultimo re strangolato dagli intestini dell’ultimo prete. In quel periodo, l’opera di filosofi laici come Spinoza e Kant fu molto importante nel creare un clima intellettuale propizio all’attività politica rivoluzionaria. Kant sostenne che persino le parole di Cristo devono essere valutate prendendo come riferimento il dettato della ragione umana universalmente condivisa. Per i pensatori dell’Illuminismo come Jefferson fu importante sostenere che la ragione è una base sufficiente per la deliberazione morale e politica, e che la rivelazione non è in ciò necessaria.
Jefferson, autore sia dello Statuto per la Libertà Religiosa della Virginia che della Dichiarazione Americana di Indipendenza, fu un tipico intellettuale di sinistra dei suoi tempi. Lesse parecchia filosofia e la prese anche molto sul serio. Scrisse nella Dichiarazione che: “Noi pensiamo che queste verità siano auto-evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro creatore di certi inalienabili diritti, che tra questi vi siano vita, libertà e il perseguimento della felicità”. Da buon razionalista illuminista, era d’accordo con Kant che la ragione fosse la fonte di tali verità e che la ragione fosse sufficiente per fornire una guida morale e politica.
Alcuni intellettuali occidentali contemporanei, tra cui Jürgen Habermas, il più insigne filosofo vivente, pensano che nel razionalismo illuminista vi sia qualcosa di significativamente giusto. Habermas crede che la riflessione filosofica possa davvero fornire una guida morale e politica – che tale riflessione possa svelare dei principi che abbiano ciò che egli chiama “validità universale”. I filosofi fondazionalisti come Habermas vedono la filosofia giocare il medesimo ruolo culturale assegnatole da Kant e Jefferson. Il semplice esercizio del pensiero porterà alla luce quelle che Habermas chiama “presupposti della comunicazione razionale” e perciò fornirà criteri che possono guidare la scelta morale e politica.
Il razionalismo illuminista e i suoi errori
In America e più in generale in Occidente, molti intellettuali di sinistra sarebbero d’accordo nell’attribuire alla democrazia un fondamento del genere. Costoro pensano che verità morali e politiche così centrali siano, se non auto-evidenti, comunque transculturali e astoriche – il prodotto della ragione umana in quanto tale, non solo di una certa sequenza di eventi storici. Sono contrariati e disturbati dagli scritti di filosofi anti-fondazionalisti, come il sottoscritto, che sostengono non esista qualcosa come la “ragione umana”.
Noi anti-fondazionalisti consideriamo il razionalismo illuminista come un infelice tentativo di battere la religione giocando al suo gioco – il gioco di pretendere che ci sia qualcosa sopra e oltre la storia umana che possa librarsi e giudicarla. Sosteniamo che, anche se ovviamente certe culture sono migliori di altre, non vi sono criteri transculturali di ciò che è “migliore” cui ci si possa appellare quando diciamo che le società democratiche moderne sono migliori delle società feudali, o che le società egualitarie sono migliori di quelle razziste o sessiste. Siamo sicuri che il dominio esercitato da rappresentanti eletti da persone alfabetizzate e ben istruite sia meglio del dominio di preti e re, ma non cercheremmo di dimostrare la verità di questa affermazione ad un sostenitore della teocrazia o della monarchia. Sospettiamo che se non lo la convinto la storia, nient’altro potrà convincerlo della falsità delle sue idee.
I professori di filosofia anti-fondazionalisti come me non pensano che la filosofia sia così importante come ritenevano Platone e Kant. Questo perché non pensiamo che il mondo morale abbia una stuttura che può essere individuata tramite riflessione filosofica. Siamo storicisti perché siamo d’accordo con la tesi di Hegel secondo cui “la filosofia è il proprio tempo, colto nel pensiero”. Quel che Hegel intendeva, ritengo, è che le pratiche sociali umane in particolare, e le istituzioni politiche in particolare, sono il prodotto di situazioni storiche concrete, che devono essere giudicate in riferimento ai bisogni creati da quelle stesse situazioni. Non c’è modo di fare un passo indietro rispetto alla storia umana e guardare alle cose dal punto di vista dell’eternità.
La filosofia, in questa prospettiva, è ancella della storia. La storia della filosofia dovrebbe essere studiata nel contesto delle situazioni sociali che crearono le dottrine filosofiche e i sistemi, allo stesso modo in cui studiamo la storia dell’arte o della letteratura. La filosofia non è, né sarà mai, una scienza – nel senso di una accumulazione progressiva di verità stabili.
Prima di Hegel, la maggior parte dei filosofi in Occidente era universalista e fondazionalista. Per dirla con Isaiah Berlin, prima della fine del diciottesimo secolo i pensatori occidentali vedevano la vita umana come il tentativo di risolvere un puzzle. Berlin descrive così quello che considero la loro speranza in fondamenti filosofici universali della cultura: “Ci deve essere un qualche modo di incastrare i pezzi. L’essere onnisciente, Dio o creatura terrena – in qualunque modo si preferisca concepirla – è per principio capace di sistemare tutti i pezzi in un quadro coerente. Chiunque riesca a fare questo saprà com’è fatto il mondo: cosa sono le cose, cosa sono state, cosa saranno, quali leggi lo governano, cos’è l’uomo, qual è la relazione dell’uomo con le cose e, di conseguenza, quali sono i suoi bisogni, cosa desidera e come può ottenerlo”.
L’idea che il mondo intellettuale, incluso il mondo morale, sia come un puzzle e che i filosofi siano le persone incaricate a mettere tutte le tessere al loro posto presuppone che la storia non conti davvero: non ci sarà mai niente di nuovo sotto il sole. Questa assunzione fu indebolita da tre eventi. Il primo fu l’ondata di rivoluzioni democratiche della fine del diciottesimo secolo, specialmemente quella americana e quella francese. Il secondo fu il movimento Romantico in arte e letteratura – un movimento che suggeriva fosse il poeta, più che il filosofo, la figura che aveva contribuito in maggior misura al progresso sociale. Il terzo, che si verificò un po’ dopo, fu l’accettazione generale del resoconto evoluzionista proposto da Darwin dell’origine della specie umana.
La giustificazione dei diritti
Uno degli effetti di questi tre eventi fu l’emergere di una filosofia anti-fondazionalista – di filosofi che sfidano il modello del puzzle. La tradizione filosofica occidentale, dicono questi autori, aveva sbagliato a pensare che il duraturo e lo stabile fossero da preferire all’inedito e al contingente. Platone, in particolare, aveva sbagliato ad assumere la matematica come modello della conoscenza.
Dal punto di vista anti-fondazionalista, non esiste qualcosa come la natura umana, dal momento che gli esseri umani si modellano strada facendo. Creano se stessi come i poeti creano poesie. Non esiste qualcosa come la natura dello stato o la natura della società che aspetta di essere compreso – c’è solo una sequenza storica di tentativi, più o meno riusciti, di combinare in qualche modo ordine e giustizia.
Per illustrare ulteriormente la differenza tra fondazionalisti e anti-fondazionalisti, torniamo al proclama di Jefferson che i diritti alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità sono auto-evidenti. I fondazionalisti incalzano che l’esistenza di tali diritti è una verità universale, che non ha nessun legame particolare con l’Europa piuttosto che con l’Asia o l’Africa, o con la storia moderna piuttosto che con la storia antica. L’esistenza di tali diritti, dicono, è come l’esistenza dei numeri irrazionali, per esempio la radice quadrata di due – qualcosa che chiunque si concentri sulla cosa sarà portato a riconoscere. Questi filosofi sono d’accordo con l’affermazione di Kant secondo cui “la comune coscienza morale” non è un prodotto storico ma parte della struttura della razionalità umana. L’imperativo categorico di Kant stabilisce che non dobbiamo usare altri esseri umani come semplici mezzi – non li dobbiamo trattare come semplici cose. La traduzione in concreti termini politici è compiuta da Jefferson e dagli autori della Dichiarazione di Helsinki dei Diritti Umani. Tali traduzioni, semplicemente, riformulano convinzioni morali che avrebbero dovuto risultare auto-evidenti ai tempi di Platone e Alessandro come lo sono ora. È affare della filosofia ricordarci di quelle cose che, da qualche parte, in fondo al cuore, abbiamo sempre saputo che sono vere. In questo senso, Platone aveva ragione a dire che la conoscenza morale è questione di reminiscenza – una questione a priori, non un risultato di sperimentazione empirica.
Al contrario, gli anti-fondazionalisti come me condividono con Hegel che l’imperativo categorico di Kant è un’astrazione vuota fino a che non è riempita con quel genere di dettagli concreti che solo l’esperienza storica può fornire. Lo stesso diciamo a proposito della pretesa di Jefferson circa i diritti umani auto-evidenti. Dal nostro punto di vista, i principi morali non sono mai qualcosa più che dei riassunti di un certo corpo di esperienza. Chiamarli “a priori” o “auto-evidenti” significa continuare ad usare l’analogia platonica, del tutto fuorviante, tra certezza morale e certezza matematica. Nessuna affermazione può avere al contempo il carattere di verità auto-evidente e implicazioni politiche rivoluzionarie.
Dire che una proposizione è auto-evidente, secondo noi anti-fondazionalisti, non è che un vuoto gesto retorico. L’esistenza dei diritti che i rivoluzionari del diciottesimo secolo rivendicavano per tutti gli esseri umani non era apparsa evidente alla maggior parte dei pensatori europei, nei mille anni precedenti. Che quella esistenza appaia evidente ad americani ed europei a più di duecento anni dalla sua prima rivendicazione è cosa che va spiegata con uno specifico indottrinamento culturale, non con una specie di consustanzialità tra mente umana e verità morale.
Per sostenere la nostra tesi, noi anti-fondazionalisti prendiamo in considerazione fatti storici spiacevoli, come il seguente: le parole della Dichiarazione furono accolte dal governo democratico, o presunto tale, degli Stati Uniti come se dovessero applicarsi solo alle persone di origine europea.
Furono applicate, dai Padri Fondatori dell’America, solo agli immigrati che avevano attraversato l’Atlantico per sfuggire ai regimi monarchici europei. Non fu mai presa sul serio l’idea che anche i nativi americani – le tribù indiane, cioè gli abitanti aborigeni – avessero tali diritti. Gli indiani recalcitranti, semplicemente, furono massacrati. Fu solo cento anni dopo la Dichiarazione di Indipendenza che i cittadini degli Stati Uniti cominciarono a prendere sul serio i diritti delle donne – cominciarono a chiedersi, cioè, se agli americani di sesso femminile si dovessero dare le stesse opportunità di perseguimento della felicità che agli americani maschi. Passarono altri cento anni e una guerra civile enormemente dispendiosa e crudele prima che gli americani neri avessero il diritto di non essere più tenuti in schiavitù; ne sono passati altri cento prima che cominciassero ad essere trattati come cittadini a pieno titolo e fossero dotati delle stesse opportunità dei bianchi.
L’importanza della sfera pubblica
Questi fatti della storia del mio paese sono talvolta citati per mostrare che l’America è un paese completamente ipocrita, che non ha mai preso sul serio le sue stesse solenni dichiarazioni in fatto di diritti umani. Penso, però, che questa critica radicale degli Stati Uniti sia ingiusta e fuorviante. Una delle ragioni per cui gli Stati Uniti sono diventati, in due secoli, un paese migliore, più giusto, più rispettoso e più generoso, è che le libertà democratiche – in particolare la libertà di stampa e la libertà di parola – hanno dato la possibilità all’opinione pubblica di forzare i maschi bianchi con antenati europei a chiedersi se non stavano trattando ingiustamente Indiani, donne e neri.
Il ruolo dell’opinione pubblica nella graduale espansione dello spettro dei diritti umani nelle democrazie occidentali è, a mio avviso, la miglior ragione per preferire la democrazia ad altri possibili sistemi di governo. La storia degli Stati Uniti illustra il modo in cui una società che badava soprattutto alla felicità di proprietari maschi bianchi ha potuto, gradualmente e pacificamente, trasformarsi in una società in cui donne nere povere sono diventate senatrici, funzionarie di Gabinetto o giudici dell’Alta Corte. Jefferson e Kant sarebbero rimasti sconcertati dai cambiamenti che hanno avuto luogo nelle democrazie occidentali negli ultimi due secoli. In effetti, essi non pensavano ad un uguale trattamento per neri e donne, o al suffragio femminile, come qualcosa di deducibile dai principi filosofici da loro enunciati. ll loro stupore illustra l’argomento anti-fondazionalista secondo cui il progresso morale non è, come in matematica, prodotto della riflessione razionale. È questione, piuttosto, di saper immaginare un futuro migliore e osservare i risultati dei tentativi già effettuati per trasformare quel futuro in realtà. La conoscenza morale, come quella scientifica, risulta in gran parte dal fare esperimenti e dal vedere come vanno. Il suffragio femminile, per esempio, ha funzionato bene. Non così, per altro verso, il controllo centralizzato dell’economia di un paese.
La storia del progresso morale a partire dall’Illuminismo mostra che ciò che fa la differenza, in una democrazia, è tanto la libertà di parola e di stampa quanto la possibilità per i cittadini arrabbiati di rimpiazzare rappresentanti eletti cattivi con rappresentanti migliori. Un paese può avere elezioni democratiche ma non fare progressi morali se coloro che sono trattati ingiustamente non hanno modo di far conoscere le proprie sofferenze. In teoria, un paese potrebbe rimanere una democrazia costituzionale anche se il suo governo non istituisse mai alcuna misura per incrementare l’eguaglianza di opportunità. ln pratica, però, la libertà di dibattere questioni politiche e di proporre candidati assicurerà che la democrazia, nel senso dell’egualitarismo, discenda come conseguenza naturale dalla democrazia come regime costituzionale.
La morale di questo “sermone” anti-fondazionalista è che la storia della filosofia occidentale non è un’area di studi molto utile per i popoli non interessati dal processo di secolarizzazione, il più importante effetto dell’Illuminismo europeo, o per quei paesi che solo ora stanno vedendo nascere un regime costituzionale. La storia dei successi e dei fallimenti dei diversi esperimenti sociali, compiuti in vari paesi democratici, è un’area da cui si può trarre molto più giovamento. Se noi anti-fondazionalisti abbiamo ragione, il tentativo di far poggiare la società su fondamenti filosofici dovrebbe essere sostituito dal tentativo di imparare dalla memoria storica.
Published 6 July 2007
Original in English
Translated by
René Capovin
First published by Il Bello del Relativismo, ed. Elisabetta Ambrosi (Marsilio editori, 2005); Reset 86 (2004)
Contributed by Reset © Richard Rorty / Reset / Eurozine
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