Pensare l'Europa senza pensare

Il discorso neocoloniale sui e nei Balcani occidentali

“Sembra che la cosiddetta unificazione
dell’Europa venga portata avanti con
poca riflessione”, scrivevano Jelica
Sumic Riha e Tomaz Mastnak sulla rivista Filozofski
vesti
nel 1993.1
Il loro atteggiamento critico
era determinato essenzialmente dai sanguinosi
avvenimenti nell’ex Jugoslavia che l’Europa
non era stata in grado di prevenire non avendo
sostenuto, tra l’altro, i tentativi di democratizzare
la stessa Jugoslavia. Negli anni che sono
seguiti, sono stati principalmente i circoli accademici
a criticare le istituzioni dell’UE e i
discorsi inerenti all’Unione creati ai livelli
nazionali e sovranazionali. Per contro, i due
discorsi sull’UE più “veementi” – quello politico
e quello mediatico – hanno continuato a
mostrare una grave mancanza di riflessione.
Oggi, la nozione o idea di “Europa” è stata
quasi completamente assimilata a quella di UE,
e l’appartenenza a essa è il principale strumento
per dare forma alla nuova geografia simbolica
del continente. I paesi che già si trovano all’interno
dell’UE possono includere o escludere,
mentre quelli che si trovano “in cammino verso
l’Europa”, o quelli che non hanno alcuna possibilità
di diventarne membri, sono esclusi. Mitja
Velikonja ha chiamato questa pratica discorsiva,
in cui le nozioni di Europa e di europeo sono
equiparate all’UE, il “peccato originale” del
nuovo eurocentrismo. “Con il pretesto della
semplificazione, dell’abbreviazione o dell’eloquenza
(euloquenza?) – i due termini sono semplicemente
equiparati – l’unità politica ed economica
si appropria del nome geografico e storico
dell’intero continente. Questo processo di
ammissione nell’UE mostra in realtà come i
paesi non-europei si possano trasformare in
europei”. 2

Che cosa ci possono dire questi discorsi sul
carattere dell’Europa contemporanea? E come
si riflette la geografia simbolica dell’Europa
nell’area che chiamiamo i “Balcani occidentali”,
che grosso modo corrisponde allo spazio
dell’ex Jugoslavia?

I Balcani occidentali come “altro” coloniale

Per quanto sia intensa la ricerca contemporanea
di un’identità europea, e per quanto sia in buona
fede la dedizione a tale compito, vista da una
prospettiva storica, l’idea è relativamente nuova:
fino al XV secolo il nome “Europa” veniva usato
solo sporadicamente e non aveva alcun peso particolare.3 È solo dalla metà del XV secolo, con la
conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453,
che il concetto di “Europa” comincia a essere
inteso come “portatore di una coscienza comune
dell’Occidente” e come baluardo contro il turco
ostile. Oggi, “incapace di evocare la minaccia
del comunismo, l’Occidente sviluppato ha trovato
un nuovo spauracchio nell’islam”.4 Nello stesso
tempo – e questo va evidenziato – gli “altri”
europei che già esistevano – l’europeo coloniale,
semitico, dell’Est – hanno perduto poco o niente
della loro “alterità”.

L’immagine dei Balcani come un “altro”
interno, o come un “semi-altro”, occupa una
posizione speciale in un contesto nel quale alcuni
paesi europei sono membri dell’UE, mentre
altri stanno cercando di diventarlo. Da una
parte, i Balcani occidentali sono visti come
parte dell’Europa sia in senso geografico che
storico che in termini di civiltà (come continuano
a sottolineare i politici locali ed europei), ma
con un bel po’ di lavoro da fare prima di diventare
“europei”. Dall’altra, all’interno di questo
spazio ambiguo “in cui l’europeità di alcuni
paesi è data per scontata, mentre altri devono
lavorare per ottenerla”,5 il discorso sull’ammissione
all’UE dei paesi dei Balcani occidentali
appare come terreno ideale per la formazione di
un nuovo orientalismo europeo.

Per meglio comprendere i processi che portano
a questo nuovo orientalismo, ci tornerà utile
la categoria analitica di “eredità storica”. Questa,
al contrario della tradizione, non è il risultato
della scelta consapevole di certi elementi del
passato. Piuttosto, “racchiude tutto ciò che dal
passato è trasmesso, che piaccia o meno”.6
L’eredità storica non può essere cambiata, anche
se può essere evocata o celata, glorificata o resa
tabù, a seconda delle singole aspirazioni del
momento.

Il colonialismo, in quanto eredità storica
delle società dell’Europa occidentale, è diventato
l’eredità storica di tutta l’UE. Sebbene
rappresenti una parte oscura della storia europea,
i politici europei oggi fanno aperto riferimento
al passato coloniale delle loro società.

Nel caso dei Balcani occidentali, la riproduzione
di relazioni di tipo coloniale ha luogo attraverso
la consolidata immagine dei Balcani
come periferia da sorvegliare e da amministrare,
bisognosa di assistenza continua da parte
dei centri di potere europei. Nel discorso politico,
il processo di ammissione all’UE dei
paesi balcanici occidentali non è semplicemente
rappresentato come una trasformazione profonda:
per portarla a termine, c’è bisogno di
assistenza e di una guida lungo la strada. Un
simile “tutoraggio” comporta che la regione si
trovi “a un livello più basso nella scala evolutiva
” e che non possa “progredire da sola, ma
richiede una guida esterna per evitare di scivolare
negli errori del passato”.7

L’idea che una specie di amministrazione
coloniale dei Balcani sia indispensabile per
mantenere la pace e per consentire lo sviluppo
dell’intero continente europeo è stata ripetutamente
sostenuta in articoli, saggi e letteratura
pseudo-accademica per tutti gli anni Novanta.
Secondo Robert Carver,8 l’unica soluzione per
gli interminabili disordini in Albania è “un ordine
e un’industria imposti dall’Europa” e un rafforzamento
dei centri di potere che caratterizzavano
i tempi del colonialismo. Robert Kaplan,
nel suo Balkan Ghosts,9
oggi citato come il testo
per eccellenza sul balcanismo, affermava: “Solo
l’imperialismo occidentale – anche se a pochi
piacerà chiamarlo così – può adesso unire il
continente europeo e salvare i Balcani dal
caos”. Sempre nei primi anni Novanta, Michael
Ignatieff vedeva nell’assenza di grandi potenze
la ragione dei conflitti nell’area, commentando
che “nei Balcani le popolazioni si ritrovano
senza un arbitro imperiale a cui appellarsi. Non
c’è da sorprendersi dunque che, non frenate da
mani più forti, si siano aggredite l’un l’altra per
quella resa finale dei conti a lungo rimandata
per la presenza dell’impero”.10 In un articolo sul
Guardian, Julian Borger scriveva di quanto
fosse “necessaria allo sviluppo democratico in
Bosnia l’esistenza di un “regime coloniale benevolo””.11 L’approccio utilizzato dalla “comunità internazionale”
per amministrare prima la Bosnia-
Erzegovina e poi il Kosovo, nell’immediato
dopoguerra dell’ex Jugoslavia, mostra molti
tratti coloniali, come è stato evidenziato dai
ricercatori che hanno studiato il discorso dei
principali enti politici all’interno dell’amministrazione
internazionale.12 La “missione della
comunità internazionale” veniva esplicitamente
rappresentata come una mission civilisatrice, in
cui i suoi rappresentanti dovevano impiegare
una serie di misure per insegnare alle nazioni
balcaniche la democrazia e il rispetto della
legge. Questo discorso operava in sinergia con
la ben radicata immagine dei Balcani come
regione bisognosa di supervisione coloniale, e
con i nuovi meccanismi di esclusione introdotti
dal processo di ammissione dell’UE. Il percorso
di democratizzazione, avendo bisogno di un
qualche tipo di amministrazione coloniale,
diventa un prerequisito per l’europeizzazione
dei paesi balcanici.13

Il nuovo contesto europeo, nel quale il colonialismo
diventa eredità storica dell’Unione
Europea, consente alle élite politiche degli stati
privi di un passato coloniale di appropriarsi dei
discorsi coloniali. Quest’appropriazione, completata
senza una riflessione o un “filtro” attraverso
specificità storiche, si può vedere nelle
dichiarazioni pubbliche dei politici dell’UE. Ad
esempio, nel giugno del 2007, poco prima che
il Portogallo assumesse la presidenza dell’UE,
il rappresentante permanente portoghese presso
l’Unione Europea, Álvaro Mendonca e Moura,
ha affermato che, in ragione della sua storia
coloniale, “il fulcro della politica estera del
Portogallo sarà la cooperazione con l’Africa e i
diritti umani saranno in primo piano. Non possiamo
certo cacciare via, dai tavoli in cui ci troviamo
seduti assieme, quei paesi che violano i
diritti umani”.14 Qualche mese più tardi, quando la Slovenia si stava preparando a succedere
al Portogallo alla presidenza, il Financial Times
riportava una dichiarazione di Janez Jansa,
allora Primo Ministro sloveno, il quale affermava
che “nella sua regione, la Slovenia ha
interessi simili a quelli del Portogallo in Africa”.15 In maniera analoga, l’europarlamentare
sloveno Jelko Kacin ha stabilito un parallelo tra
gli interessi di una potenza coloniale in una sua
ex colonia (in questo caso, in effetti, tra una
potenza imperiale e i suoi ex territori) e gli interessi
della Slovenia nei Balcani occidentali,
evidenziando come “il comportamento dell’Austria
in Slovenia sia simile al comportamento
della Slovenia nell’Europa sud-orientale
“.16 L’unico criterio e la sola giustificazione per tracciare parallelismi del genere sono l’appartenenza
all’UE. L’appartenenza crea un
“repertorio” condiviso di modelli discorsivi per
la produzione di “alterità” quando si fa riferimento
a chi non fa parte dell’Europa unita. Di
regola, questi modelli sono sfruttati dagli stati
la cui “europeità” è indubbia, a prescindere che
siano membri o no dell’UE.

L’appartenenza all’UE della Slovenia gioca
anche un ruolo centrale nei discorsi apertamente
razzisti. Un esempio del genere è stato l’avviso
di una ditta di costruzioni rivolto ai suoi lavoratori
stagionali provenienti dalla Bosnia-Erzegovina,
affisso nel marzo 2008 sui container
dove vivevano a Bezigrad, un quartiere di
Lubiana. Il messaggio avvertiva i lavoratori di
non praticare “la loro cultura e i loro comportamenti,
che in certi casi risultano molto inappropriati.
Come sapete, ora vivete a Lubiana, capitale
della Repubblica di Slovenia, uno Stato
membro dell’UE. Qui si osservano leggi e regolamenti
di ordine superiore”. Questo esempio di
discorso si basa sul tipico cliché centro-europeo
di un ambiente ordinato e abitato da cittadini
acculturati che non tollerano alcun tipo di nuovo
arrivato o di lavoratore straniero immigrato che
disturbi il loro idillio urbano. In questo caso, gli
“sporchi meridionali” non sono più i meridionali
delle altre repubbliche dell’ex Jugoslavia, la
cui posizione al tempo era certo migliore nonostante
la ghettizzazione e gli stereotipi diffusi.

Né questo gruppo include altri lavoratori stagionali
provenienti dalla Slovacchia o da altri stati
dell’Europa dell’Est membri dell’UE, il cui trattamento
è diverso. Per di più, i salari bassi e le
misere condizioni di vita e di lavoro attirano
solo pochi lavoratori da questi paesi verso la
Slovenia (al contrario di quanto ci si aspettava
dopo l’entrata nell’Unione).

L’aperto richiamo ai modelli coloniali in riferimento
ai paesi dei Balcani occidentali dovrebbe
anche essere visto nel suo più ampio contesto
economico. Mentre l’Austria è il maggiore
investitore estero in Slovenia e uno dei più
importanti investitori nei Balcani occidentali, la
fetta più grossa degli investimenti esteri della
Slovenia si trova in Serbia. Nel 2007, la regione
dell’Europa sud-orientale rappresentava un
sesto di tutte le esportazioni slovene. Anche per
la Slovenia, i Balcani occidentali sono l'”area di
competenza”, il mercato e la “sfera d’interesse”
più importanti: qui, la competenza sui Balcani
occidentali è inseparabile dall’influenza economica,
e i modelli discorsivi e le relazioni di
potere che vi stanno dietro si sostengono a
vicenda.

Il colonialismo europeo “Balkan Style”

Una delle caratteristiche più importanti del
discorso orientalista, particolarmente evidente
nel caso dei Balcani a causa della sua natura
ambivalente di “altro interiore”, è l’abilità di
“divorziare dalle strutture coloniali”.17 Per questa
ragione, le società che sono soggette a orientalizzazione
possono interiorizzarla, reinterpretarla
e modificarla ai fini delle demarcazioni e
delle negoziazioni interne delle loro identità. Il
concetto di “orientalismi degli orientali”
(nesting orientalisms) nell’ex Jugoslavia, formulato
da Milica Bakic-Hayden, è un’illustrazione
eccellente del modo in cui le singole
nazioni jugoslave hanno impiegato il meccanismo
discorsivo orientalista per presentare se
stesse come occidentali/europee/superiori e le
altre nazioni come orientali/levantine/inferiori.18
Maple Razsa e Nicole Lindstrom mostrano
come, sotto la presidenza di Franjo Tudjman, i
croati abbiano preso le distanze dai loro vicini
meridionali e orientali, sfruttando i medesimi
stereotipi sui Balcani usati dai politici occidentali
per riferirsi alla stessa Croazia.19

I modelli discorsivi dominanti sui Balcani
occidentali, concepiti nei centri di potere europei
da politici degli stati membri e da funzionari
dell’UE, sono stati adottati e interiorizzati
dalle società dell’ex Jugoslavia per ridefinire le
relazioni reciproche. Sono gli uomini di potere
dei paesi più prossimi all’ammissione all’UE a
rivendicare il diritto di concepire discorsi identici
a quelli il cui argomento, in un contesto più
ampio, è la loro propria nazione. Ad esempio,
dopo l’arresto di Radovan Karadzic, nel 2008,
l’allora Primo Ministro croato Ivo Sanader ha
affermato che, nonostante l’importante passo
compiuto dalla Serbia, la Croazia sarebbe entrata
nell’UE prima della sua vicina: “Ci aspettiamo
che il nuovo governo e il Presidente serbo
mantengano il cammino intrapreso e incrociamo
le dita per loro”, aggiungendo poi la quasi inevitabile
promessa di assistenza paternalistica:
“La Croazia sosterrà la Serbia in questo percorso”.20 Quando la Slovenia ha cercato di bloccare
i negoziati per l’ammissione della Croazia,
Sanader ha usato la situazione per sottolineare
la gerarchia tra i paesi balcanici candidati: “La
Slovenia blocca la Croazia nel suo cammino
verso l’UE, ma la Croazia non farà lo stesso con
la sua vicina per ripicca, e quando la Croazia
siederà al tavolo europeo non si comporterà con
la Serbia come la Slovenia ora si comporta con
la Croazia”.21 Il Ministro serbo degli affari esteri, Vuk Jeremic, in seguito ha detto che “la Serbia
è pronta ad aiutare la Bosnia e l’Erzegovina
nel loro cammino verso l’UE”.22
L’appropriazione di modelli discorsivi dell’UE
senza una riflessione, un filtro o un adattamento
alle circostanze locali si può attribuire
alla natura delle relazioni politiche nell’Europa
contemporanea: i nuovi stati membri, cioè gli
ex paesi socialisti che devono “provare” la loro
europeità prima di entrare nell’UE, devono
continuare a farlo anche quando sono diventati
membri dell’Unione. Allo stesso tempo, i
vantaggi che si pensa vengano dall’adesione
sono apertamente ridotti a interessi economici,
sia dai vecchi che dai nuovi membri. Al
momento di spiegare che cosa significhi “integrazione
europea” nelle campagne pre-elettorali,
i politici dei paesi balcanici candidati parlano
di ciò che credono possa avere un impatto
maggiore sugli elettori: standard di vita più
alti, sviluppo economico più rapido, supporto
finanziario dall’UE, abolizione del visto sui
documenti, e così via.

Questo crea una situazione in cui non c’è più
spazio per dialogare su come i cittadini europei,
o le persone che vivono nelle varie parti del
continente, comprendano il significato dei valori
europei. Il dibattito sull’europeità rimane inevitabilmente
intrappolato nel discorso coloniale
della dominazione occidentale (dell’Europa
occidentale, oggi UE) ed è sviluppato esclusivamente
dai “veri europei”, cioè da chi vive all’interno
dell’UE. Alcuni vedono positivamente il
fatto che l’ammissione all’UE degli ex stati
socialisti dell’Europa orientale e sud-orientale
non sia la prova definitiva della loro europeità,
sostenendo, ad esempio, che “l’ammissione non
ha generato una “fusione” completa dei nuovi
membri – sembra dunque che nell’Europa allargata
ci siano migliori possibilità di formulare
visioni alternative dell’Europa stessa”.23 Tuttavia, le pratiche e i discorsi politici, sia
nei paesi della “nuova Europa” che in quelli che
ancora attendono di ottenere questo status,
lasciano poche speranze per lo sviluppo di un
discorso emancipatorio dell’europeità. Al contrario,
c’è soltanto un’appropriazione improvvisata
di schemi modellati nella “vera Europa”,
con discorsi di europeità che servono solo a
ottenere un credito politico a buon mercato.

L’Europa è possibile?

In una conferenza a Salonicco nel 1999, Étienne
Balibar notava come “il destino dell’intera
identità europea si giochi in Jugoslavia e più in
generale nei Balcani”. Secondo Balibar, l’Europa
ha due alternative: “Da un lato, vedere nella
situazione balcanica non una serpe annidata nel
suo seno, uno “strascico” patologico del sottosviluppo
o del comunismo, ma piuttosto un’immagine
[…] della sua stessa storia, e prendere a
confrontarsi con essa e risolverla mettendosi
così in gioco e trasformandosi. Solo a quel
punto l’Europa ricomincerà a essere possibile.
Dall’altro, rifiutare di affrontare se stessa e continuare
a trattare il problema come un ostacolo
esterno da superare con mezzi esterni, colonizzazione
inclusa”.24

Uno sguardo ai discorsi europei sui Balcani
occidentali mostra come l’Europa non sia
diventata più possibile da quando Balibar ha
espresso il suo pensiero. Si potrebbe perfino
sostenere il contrario: che i mezzi usati per
costituire i Balcani occidentali come un’area al
di fuori dell’Europa siano diventati anche più
espliciti; che l’uso dei meccanismi di sorveglianza
e di colonizzazione sia caratterizzato da
una mancanza di riflessione ancora più grande;
e che questi mezzi siano diventati accessibili a
tutti all’interno dell’UE. I principali beneficiari
economici di questa colonizzazione simbolica e
discorsiva dei Balcani sono proprio quei paesi
che più di frequente fanno uso di questi meccanismi:
gli stati membri localizzati lungo il confine
sud-orientale dell’UE. Per quanto riguarda
l’Europa nel suo insieme, la colonizzazione le
consente di continuare a cullare un’immagine
compiaciuta di sé, scaricando su chi sta fuori
tutto ciò che può minacciare quest’immagine.
Un’Europa di questo tipo non è capace di
riflettere su se stessa. In questo tipo di Europa, i
media riprendono le dichiarazioni dei politici
riecheggiando i modelli che hanno segnato i
periodi più bui della stessa storia europea. È difficile
non provare la spiacevole sensazione di
una ripetizione, anche se è ben radicata l’opinione
che la ripetizione del passato è un problema
solo dei popoli balcanici e non anche degli
europei.

Tomaz Mastnak, Jelica Sumic Riha, "Questioning Europe", in Filozofski vesti, 2, 1993, pp. 7-11.

Mitja Velikonja, Evroza -- kritika noveg evrocentrizma, Beograd, XX vek, 2007, p. 17.

Peter Burke, "Did Europe Exist Before 1700", in History of European Ideas, 1 (1) 1980, pp. 23-29. Citato in Tomaz Mastnak, "Iznajdba 'Evrope': humanisti in vojna proti Turkom", in Filozofski vesti, 1/1997, pp. 9-24.

Gerard Delanty, Inventing Europe: Idea, Identity, Reality, Palgrave Macmillan, 1995, p. 150.

Andrew Hammond, "Balkanism in Political Context: From the Ottoman Empire to the EU", in Westminster Papers in Communication and Culture, 3(3) 2006, pp. 6-26.

Marija Todorova, "Sta je istorijski region? Premeravanje prostora u Evropi", in Rec, 73/19, 2005, pp. 81-96.

Hammond, Balkanism, cit., p. 19.

Robert Carver, The Accursed Mountains: Journeys in Albania, Trafalgar Square, 1999.

Robert Kaplan, Balkan Ghosts, 1993, tr. it. Gli spettri dei Balcani, Rizzoli, 2000.

Citato in Hammond, Balkanism.

Ibidem.

Danijela Majstorovic, "Construction of Europeanization in the High Representative's Discourse in Bosnia and Herzegovina", in Discourse and Society 18 (2007), pp. 627-651.

Cfr. Majstorovic, "Construction...", p. 630.

www.24ur.com, 11 giugno 2007.

Mladina, 4 agosto 2007.

Mladina, 14 marzo 2004.

Katherine Fleming, "Orientalism, the Balkans, and Balkan Historiography", in The American Historical Review, 105 (4) 2000, pp. 1218-1233.

Milica Bakic-Hayden, "Nesting Orientalisms: The Case of Former Yugoslavia", in Slavic Review, 54/4, 1995, pp. 917-931.

Maple Razsa, Nicole Lindstrom, "Balkan is Beautiful: Balkanism in the Political Discourse of Tudjman's Croatia", in East European Politics and Societies 18 (4) 2004, pp. 628-650.

www.b92.net, 28 luglio 2008.

www.b92.net, 19 dicembre 2008.

www.b92.net, 22 ottobre 2009.

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Étienne Balibar, We, the People of Europe?, Princeton University Press, 2004, p. 6; tr. it, Noi cittadini d'Europa? Le frontiere, lo Stato, il popolo, Manifestolibri, 2004.

Published 27 February 2013
Original in English
Translated by Giordano Vintaloro
First published by Lettera internazionale 114 (2012) (Italian version); l'Espill 37 (2011) (Catalan version); Eurozine (English version)

Contributed by Lettera internazionale © Tanja Petrovic / Lettera internazionale / Eurozine

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Read in: EN / CA / IT / HU

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