Writing a trade book about the ‘anti-gender ideology movement’, feminist scholar Judith Butler takes on anti-intellectualism in form and content. Fear of gender diversity is confessional, they write: declaring cisgender rights under threat revokes those of all others. In contrast, gender studies opens up potential for the material and the social to be seen as one.
La crisi europea tra populismi e nuove costituzioni
La nuova Costituzione partecipata (crowdsourced) dell’Islanda e l’impatto del blog di Beppe Grillo sulla politica italiana dimostrano come la “democrazia internettiana” abbia inaugurato una nuova fase di innovazione democratica. Il rapporto tra cittadini e politici potrebbe non essere mai più lo stesso.
L’11 marzo 2013, il Parlamento ungherese ha approvato alcune modifiche sostanziali della Costituzione che limitano le libertà civili e i poteri della Corte Costituzionale. Gli emendamenti sono stati un’iniziativa del Partito nazional-populista Fidesz, che controllava (e tuttora controlla) la maggioranza dei seggi in Parlamento. Tra i 22 articoli modificati, a destare più scalpore sono stati quelli che legittimano i limiti alla libertà di espressione, criminalizzano i senzatetto che dormono per strada, impongono ai neolaureati ungheresi un divieto di dieci anni a emigrare e sovvertono alcuni principi costitutivi della democrazia liberale come la separazione dei poteri e il controllo sulla costituzionalità delle leggi. Di fatto, uno degli articoli modificati diminuisce la facoltà della Corte Costituzionale di influenzare il contenuto della legge fondamentale – compreso quello in fase di emendamento – e revoca la validità dei verdetti da essa enunciati in precedenza. I rappresentanti dell’Unione Europea hanno espresso preoccupazione al riguardo ma, purtroppo, l’UE non prevede una procedura che consenta all’Unione di interferire nelle faccende di politica interna qualora quest’ultima prenda direzioni non in sintonia con la democrazia costituzionale (Müller, 2013). Quindi Viktor Orban, capo della maggioranza e principale protagonista della riforma costituzionale, ha liquidato i timori dell’UE con la seguente affermazione, pronunciata all’apertura della sessione parlamentare in cui si è votato per la nuova Costituzione: “La gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione”.
Qualche mese prima, il 20 ottobre 2012, gli islandesi avevano risposto positivamente a un referendum consultivo concernente una nuova bozza di Costituzione, una decisione giunta in seguito a un processo di dibattito aperto e articolato che aveva coinvolto associazioni civili e comuni cittadini, via Internet o in incontri faccia a faccia. Il testo della Costituzione è stato l’esito di un percorso totalmente democratico, non pilotato da una maggioranza parlamentare. Nel 2009, un anno dopo l’esplodere della crisi finanziaria che aveva messo in ginocchio l’economia islandese, le organizzazioni della società civile avevano preso l’iniziativa di istituire un’assemblea (con maggioranza sorteggiata su base casuale) per discutere e sviluppare suggerimenti in vista di una riforma costituzionale. A giugno del 2010 il Parlamento islandese, l’Alþingi, aveva approvato la legge 90/2010, che istituiva un’assemblea costituzionale consultiva cui veniva attribuito l’incarico di revisione della Costituzione. L’obiettivo era quello di coinvolgere i cittadini nell’elaborazione di una nuova Costituzione, in parte con il metodo del crowdsourcing. A tal fine erano state create due istituzioni: un forum nazionale composto da 950 cittadini islandesi, perlopiù estratti a sorte, che si pronunciò d’accordo sulla necessità di una nuova Costituzione; e un consiglio costituzionale di 25 membri, eletti con suffragio universale. A parlamentari ed esponenti di partiti politici, però, non era stato permesso di candidarsi, cosicché tra i 25 membri eletti del consiglio non c’era nessun politico di professione. Il consiglio ha approvato la nuova Carta costituzionale dopo averne discusso direttamente con gli islandesi via Facebook e Twitter. “La storia della “rivoluzione costituzionale dal basso” che ha avuto luogo in Islanda rappresenta chiaramente un caso di processo unico nel suo genere e al tempo stesso conflittuale (che al momento pare fermo a un punto morto), e solleva interrogativi complessi rispetto alla questione del cambiamento e dell’innovazione costituzionali. Per buona parte la spinta al rinnovamento politico e costituzionale è arrivata dalla popolazione islandese, vale a dire da singoli cittadini, intellettuali e organizzazioni civili dissenzienti” (Bergsson e Blokker, 2013).
Queste due vicende così diverse tra loro hanno avuto entrambe come teatro l’Europa, un continente dilaniato da una crisi economica e finanziaria di intensità e dimensioni mai più registrate dall’epoca in cui dopo la Seconda Guerra mondiale la democrazia arrivò a riplasmare l’intero ordine europeo; ma anche un continente che è oggi scuola di profonde e stimolanti trasformazioni politiche. Oltretutto, questi due casi contrapposti testimoniano la condizione di schizofrenia nella quale il modello democratico si dibatte oggi. Nelle democrazie contemporanee si registra infatti un incredibile paradosso: il sistema politico democratico gode del sostegno dell’opinione pubblica e addirittura di un carisma universale (le stesse riforme ungheresi sono state propagandate come volte a difendere “la democrazia del Paese”), eppure i suoi attuali meccanismi di funzionamento sono sotto pressione e oggetto di critica, a causa in primo luogo di un declino della fiducia. Nessuno oserebbe dichiararsi non-democratico o anti-democratico, tuttavia il fare della democrazia un oggetto di fede ideologica rischia di renderle un disservizio. Gli islandesi, così come gli ungheresi, sono stati motivati nel loro desiderio di riformare la Costituzione da una forte insoddisfazione per il funzionamento delle istituzioni, l’operato dei politici e le modalità con cui venivano prese le decisioni. Hanno lanciato alle loro rispettive democrazie accuse (spesso supportate da prove) di corruzione, inefficienza, sperpero di risorse pubbliche, incompetenza dei politici e, soprattutto, sistematica abitudine degli eletti a ignorare le opinioni dei cittadini. Riconciliare democrazia idealizzata e sfiducia popolare nella democrazia praticata non è un compito facile. Ci sono segnali evidenti di un grave declino di legittimità del sistema politico democratico, malgrado il favore universale di cui l’ideale della democrazia gode. Le opposte direzioni prese da Ungheria e Islanda indicano anche, significativamente, l’assoluta incertezza che circonda gli esiti delle trasformazioni politiche di cui le democrazie sono capaci.
Metamorfosi
La democrazia sta attraversando una serie di metamorfosi, anche se le sue norme fondamentali non sono oggetto di modifiche formali. Il terzo esempio che voglio fare arriva dall’Italia. Negli anni Novanta Beppe Grillo, già noto al più ampio pubblico per la sua attività di comico, ha abbandonato gli schermi della televisione nazionale e si è reinventato nei teatri e nelle manifestazioni popolari come promotore di un movimento di denuncia negli anni in cui Tangentopoli richiamava l’attenzione dell’opinione pubblica sull’estensione del malaffare tra i politici. Nei primi anni del Ventunesimo secolo, Grillo è emerso come leader di un movimento che opponeva la condanna della satira al proliferare della corruzione politica. Nel 2005, si era ormai trasformato da oratore improvvisato di piazza in vero e proprio agitatore politico. Ciò è stato possibile, in misura niente affatto trascurabile, grazie alla creazione di un blog personale, beppegrillo.it, progettato e sponsorizzato dalla società internettiana ed editoriale di Gianroberto Casaleggio, operazione all’avanguardia nel campo delle strategie di comunicazione e di marketing digitale (il blog ha fin dall’inizio suscitato l’interesse della stampa internazionale, che lo ha valutato tra i migliori nel suo genere, e si è guadagnato anche l’ammirazione e il supporto di Joseph Stiglitz). Grillo ha così integrato tra loro due tipi di forum, quello fisico e quello virtuale, e ha fatto della partecipazione mediante espressione delle opinioni il motore di un nuovo movimento di contestazione e partecipazione. Il suo scopo però non era semplicemente quello di porsi alla guida di un movimento di opinione e protesta. Egli ha sfruttato la propria esperienza in materia di innovazione tecnologica in modo davvero originale: l’ha usata per dar vita a un soggetto politico assolutamente nuovo e unico. In pochi anni, il blog di Grillo è diventato un’arena di formazione dell’opinione, comunicazione, propaganda e mobilitazione: ha veicolato informazioni e avanzato critiche – tra gli altri – alla politica locale e nazionale, al capitalismo e al consumismo globale, alle speculazioni collegate ai brevetti farmaceutici e allo sfruttamento distruttivo dell’ambiente. Così facendo ha sollevato questioni tradizionalmente appannaggio dei verdi in un Paese che, al contrario delle nazioni europee protestanti, non aveva mai avuto un partito ecologista in grado di influenzare la politica nazionale. Di fatto, il blog di Grillo è stato esemplare nel suo sposare la critica ecologista a quella politica e nel suo rendere le tematiche ambientaliste un punto cruciale dell’accusa secondo cui la democrazia, così come viene praticata nelle società capitaliste e specialmente in Italia ed Europa, avrebbe sofferto di un calo di legittimità (Corbetta e Gualmini, 2013).
In pochi anni, l’iniziativa di Grillo è passata da movimento d’opinione a movimento politico senza perdere la sua originaria identità non-partitica e poi sempre più anti-partitica. Con il nome di “Movimento 5 Stelle” (o M5S), il gruppo di Grillo ha dapprima ottenuto un buon risultato alle elezioni amministrative, aggiudicandosi il controllo del Consiglio Comunale e la carica di Sindaco a Parma, una delle città industriali più ricche del Nord; e poi è arrivato in Parlamento conquistando il 25 per cento dei seggi alle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013. Pur non avendo formalmente riscritto la Costituzione, il M5S ha portato a una rielaborazione della pratica politica organizzata e gestita dai partiti. In altre parole, ha introdotto un elemento di “immediatezza” nella democrazia rappresentativa, dando vita a quella che definirò con un ossimoro “democrazia rappresentativa diretta”. Dal momento che “l’immediatezza” si riferisce nell’esempio qui citato all’ambito visuale e comunicativo, potremmo anche concepirla come nascita di una democrazia rappresentativa “in diretta”, in quanto tale distinta dalla partecipazione diretta nell’accezione classica o come autonomia politica. Il web fa della capacità di influenza dei comuni cittadini e dell’incessante confronto visivo e interattivo tra di essi – ma non della loro facoltà di legittimare le decisioni – un fondamento della vita politica. Quindi, mentre alcuni studiosi propongono di includere questo tipo di movimento nel fenomeno populista (Tauguieff, 2012), altri invece sostengono che, benché esso condivida alcune tematiche proprie dei populismi europei di destra (per esempio l’avversione per gli immigrati e l’antieuropeismo), si tratti tuttavia di un soggetto politico di tipo nuovo, caratterizzato non dall’appello del leader al popolo ma dalla comunicazione orizzontale tra cittadini coordinata per mezzo di Internet (Biorcio e Natale, 2013). Se la televisione si è rivelata cruciale ai fini della formazione di un movimento plebiscitario videocratico intorno alla figura di Silvio Berlusconi, il web ha agevolato le modalità dirette di presenza democratica portate avanti da beppegrillo.it e aumentato la capacità di formare e influenzare giudizi e opinioni.
Questo terzo caso di evoluzione nella pratica democratica assomiglia a quello islandese per il carattere radicale dell’esperimento effettuato, ma anche a quello ungherese per la sua contestazione del parlamentarismo all’insegna di una valutazione della politica dal punto di vista della capacità di prendere quelle decisioni che riflettono le opinioni della maggioranza più direttamente rispetto alla cacofonia di giudizio a cui la presenza dei partiti politici ci aveva abituato. Queste trasformazioni, per quanto così diverse tra loro, hanno coinciso con (e ne sono state un effetto collaterale) una serie di crisi economiche e politiche che hanno affaticato le società di mercato negli ultimi trent’anni (fin dall’ascesa dell’ideologia thatcheriana e reaganiana e la sua espansione al di là dei confini di Regno Unito e America) – che hanno avuto come risultato l’attuale messa in discussione dell’autonomia di una delle loro più consolidate istituzioni, comprese le banche centrali. Gli organi democratici stanno assistendo a un sempre maggiore impatto degli esecutivi (a livello sia nazionale che europeo) e del credito privato, degli investimenti finanziari e delle agenzie private internazionali di rating. Ne è derivata non solo una crisi economica e sociale ma anche uno smarrimento che investe la credibilità ed efficienza delle procedure deliberative e delle istituzioni democratiche, in particolar modo del Parlamento.
Un tratto sorprendente, che non viene mai sottolineato abbastanza, è che non sono più solo le giovani democrazie a sperimentare le crisi, quanto piuttosto le democrazie cosiddette consolidate e mature. Mettendo a confronto la storia recente dei Paesi del continente sudamericano con quella delle nazioni dell’area atlantica, non c’è dubbio che, in contrasto con quanto avveniva in passato, siano i primi (almeno, alcuni di loro) a godere perlopiù di buona salute, in alcuni casi (come quello del Brasile, per esempio) dando alle democrazia occidentali una lezione in termini di nuove pratiche partecipative. È come se un’esperienza di vari decenni nel campo della democrazia rappresentativa avesse sortito l’effetto di farne risaltare le mancanze, togliendo ai cittadini la speranza di riuscire a cambiarla dall’interno – speranza alla luce della quale Beppe Grillo ha proposto l’obiettivo radicale di liberare il Parlamento dai partiti reindirizzando la politica dalla ideologia alla risoluzione dei problemi (Fo, Casaleggio, Grillo 2013, pag. 79-99). Nel movimento e nelle proposte di Grillo coesistono e convergono una politica della propaganda militante (tratto che pertiene al populismo) e una politica che coltiva il mito della competenza.
La crisi di legittimità delle democrazie europee ci deve sorprendere? La domanda è tutt’altro che retorica. Dopo tutto, la democrazia è una forma di governo che genera e risolve le crisi. In quanto tale, la sua lunga storia dimostra come essa abbia eccezionali capacità di metabolizzare le trasformazioni e mettere in atto nuove procedure e nuove istituzioni come risposta alle sfide generate dalle sue stesse modalità di operato.
Come che sia, stiamo assistendo nei nostri Paesi a processi di cambiamento radicali e, come abbiamo osservato nei tre casi elencati sopra, non possiamo sapere con certezza che esiti avranno: se resteranno intrinseci alla democrazia e saranno capaci di rafforzarla o, al contrario, sfoceranno nell’abbandono del paradigma democratico. Il fatto che la democrazia sia un modello di governo della crisi non ci dice molto sulla natura dei rischi che possono derivare dalle trasformazioni in atto. È vero che, per la prima volta dalla loro rinascita dopo la Seconda Guerra mondiale, i sistemi democratici dei Paesi occidentali e dell’Europa in particolare stanno attraversando una spirale di protesta e ridefinizione che ha caratteri eccezionali, non solo per l’entità delle sfide poste ma anche per l’accelerazione degli eventi indotta e facilitata dai nuovi modelli di comunicazione. Le mutazioni a cui stiamo assistendo sono rivoluzionarie nella forma; e – malgrado non sappiamo ancora quali caratteristiche avrà il sistema democratico o addirittura se sarà ancora riconoscibile come tale una volta deposto il polverone – tentare di comprendere questi processi di cambiamento è più utile e interessante che non giudicarli o condannarli.
Democrazia internettiana
Per il momento, possiamo affermare che la democrazia internettiana stia cambiando la natura della democrazia dando nuova linfa al mito dell’autogoverno diretto (la vecchia promessa democratica dell’autonomia politica), pur correndo il rischio di alimentare politiche identitarie e populismo e promuovendo una politica che esclude e discrimina invece di accrescere la partecipazione e la diffusione del potere. I teorici della politica hanno recentemente sottolineato l’emergere di due fenomeni concomitanti che destano motivi di preoccupazione: da una parte la privatizzazione, con la concentrazione di potere nella sfera della formazione dell’opinione, e, dall’altra, il profilarsi di forme demagogiche e polarizzate di consenso che spaccano l’arena politica in gruppi faziosi e ostili tra loro. Non si tratta di connotazioni estemporanee, bensì di segnali di una trasformazione della sfera pubblica nelle democrazie di massa indotta da fenomeni eterogenei come l’erosione della legittimità dei partiti nel gestire la rappresentatività e l’acuirsi dell’ineguaglianza economica. Entrambi i fenomeni hanno un impatto diretto sulla distribuzione delle opportunità quando si tratta di avere “voce” e influenza in politica. Stando così le cose, non ci troviamo più – o comunque non ci troviamo solo – a doverci confrontare con la questione fondamentale del “come proteggere la libertà di espressione dal potere statale”. Il punto è piuttosto il seguente: da un lato, le società contemporanee si trovano di fronte al problema di una privatizzazione della pubblica arena delle idee, che in diverse aree del pianeta “è appannaggio esclusivo di una cerchia relativamente ristretta di singoli individui” (Dunn 2005, p. 175); dall’altro, la circolazione delle informazioni favorita da Internet non è in sé e per sé condizione sufficiente a limitare l’omogeneità o a diluire il potere. Internet è uno strumento formidabile per la sua capacità di agevolare la diffusione delle informazioni, ma tende anche ad aggregare le opinioni di milioni di persone attorno a vista ai quali, come osservato da Cass Sunstein, gli utenti si conformano per emulazione, tendendo così a riprodurre e radicalizzare vecchie affiliazioni pregiudiziali e faziose (Sunstein, 2006). In misura ancora maggiore rispetto alla copertura mediatica tradizionale, la trasmissione dell’informazione online può per tanto indurre i cittadini alla faziosità militante e alla formazione di nicchie autoreferenziali e omogenee di attivisti con idee simili. Il declino della partecipazione elettorale e la frammentazione dell’opinione pubblica sono fenomeni interrelati che vanno trattati come indicatori delle metamorfosi di cui è oggetto la democrazia rappresentativa. Così da una parte la diffusione dell’informazione online non è riuscita in Ungheria a contenere la crescita di una maggioranza dominatrice e tirannica, mentre dall’altra è stata capace in Islanda di promuovere un movimento di riforma costituzionale che ha rafforzato la libertà civile.
Oltretutto, gli esempi di Islanda e Italia dimostrano come il fascino dell’autogoverno diretto non implichi un ritorno al vecchio mito della partecipazione diretta e nemmeno una rinascita delle forme di assemblearismo partecipativo perseguite dai movimenti studenteschi e operai degli anni Sessanta e Settanta del 1900. Quelle contestazioni della politica istituzionalizzata erano tese a sfidare la democrazia con la prospettiva di realizzarne la promessa di autonomia politica (Revelli 2008). Quella a cui invece assistiamo oggi è piuttosto la nascita di una forma di partecipazione che non rifiuta le modalità indirette, come il suffragio elettorale e la concorrenza ai fini della rappresentanza parlamentare, ma le cambia, adatta e sovverte perlopiù eliminando – o tentando di eliminare – i due corpi intermedi che finora hanno reso possibile l’esercizio della democrazia rappresentativa: i partiti politici e il giornalismo di professione (vale a dire i media tradizionali e le agenzie di stampa). La democrazia rappresentativa diretta punta quindi a essere elettorale senza affidarsi ai partiti e gestendo piuttosto l’intero processo – dalla scelta dei candidati per la stesura delle liste alla raccolta di informazioni – attraverso i movimenti online. Raccogliere notizie in Rete perché non ci si fida dei media tradizionali come la televisione o la carta stampata. I follower di Grillo hanno messo insieme notizie e informazioni per proporre una loro interpretazione degli eventi, al contempo attaccando i media consolidati con l’accusa di falsificare i dati e manipolare le opinioni. Per esempio, per scegliere i propri candidati alle elezioni prima amministrative e poi anche nazionali, il M5S ha indetto una gara tra tutti i potenziali candidati in ogni città, ai fini della quale il curriculum vitae è stato ritenuto l’unico documento degno di fede. Una volta iscritti, i CV sono stati soggetti al verdetto emesso dai blogger. Dopo l’elezione dei rappresentanti, i blogger di Grillo hanno monitorato la loro attività. In effetti, il blog è diventato un’autorità censoria ben più rilevante di quella rappresentata dagli elettori italiani, per quanto sia in realtà impossibile stabilire se il sito abbia delegato il potere di censura ai cittadini in generale o solo ai più zelanti attivisti del web (che rappresentano comunque una minoranza). Ad ogni modo, l’identità del blog beppegrillo.it deve essere vista con qualche preoccupazione dal momento che il blog è registrato come impresa commerciale e non come associazione civile o organizzazione partitica.
Mentre il M5S ha usato la scrematura online per stilare la propria lista di candidati alle elezioni parlamentari, gli islandesi si sono affidati all’estrazione a sorte come strategia di selezione alternativa alle elezioni per scegliere i membri dell’assemblea che avrebbe discusso le proposte di riforma costituzionale (ma hanno indetto un’elezione per scegliere invece i componenti del Consiglio Costituzionale vero e proprio). Il sorteggio è una particolarissima forma di selezione associata alla democrazia fin dall’antichità perché, contrariamente alle elezioni, rappresenta un metodo di selezione del personale pubblico dal carattere autenticamente egualitario. Il sorteggio non divide l’insieme dei cittadini tra i pochi che decidono in merito alle leggi e i molti che le votano, ma attua invece il principio democratico per cui tutti dovrebbero avere la possibilità di governare ed essere governati a turno e senza discriminazione di capacità. Dopo le repubbliche umaniste italiane (che ne fecero un uso massiccio), il metodo del sorteggio è scomparso dalla politica (ma non dalla pratica giuridica), spianando la strada alla modalità elettorale di selezione. Oggi, in concomitanza con la crisi dei partiti e il ricorso di massa a Internet, il metodo del sorteggio pare ritrovare la sua utilità (Sintomer, 2011).
A parte l’estrazione a sorte, bisogna citare anche altre nuove forme di consultazione che vengono praticate nelle democrazie contemporanee (e che sono state impiegate nel processo di riforma costituzionale in Islanda), come le assemblee deliberative dei cittadini, i budget partecipativi e le varie forme di tribunali per la consultazione popolare, in cui concorrono modelli eterogenei come la democrazia deliberativa, le elezioni e il sorteggio. Questi forum e meeting che affiancano in comitati ad hoc cittadini sorteggiati o scelti ed esperti appositamente nominati, a prescindere dal fatto che puntino al problem solving o all’espressione di un giudizio critico su questioni controverse, costituiscono il nuovo terreno su cui si fonda ed emerge in netto rilievo il potere di controllo del cittadino-giudice, distinto dalle decisioni prese a livello istituzionale. Anche in questo caso, il sistema elettorale viene bypassato e messo in discussione (Abers 2000; Dryzek 2000; Fung, Wright 2001; Bobbio 2010).
Il concetto di “cittadinanza” così come la visione del “bene comune” sono ovviamente soggetti ad evoluzione con l’aumentare della complessità nelle procedure decisionali. Gli orientamenti del “pubblico dei cittadini” sono oggi emblematici delle trasformazioni a cui vanno soggette le nostre società democratiche. Come osservato da Bernard Manin, la democrazia dei partiti è stata rimpiazzata da una “democrazia del pubblico”: la cittadinanza non si associa più tanto alla partecipazione nell’elaborazione o scelta di un’agenda o dei candidati a un prossimo governo, quanto piuttosto all’attenzione che un audience indistinto di spettatori presta in tempo reale ai processi in atto. La dimensione dell’agire in diretta assume più importanza della prospettiva sul futuro che i partiti politici offrono ai votanti. La democrazia del pubblico implica un astante collettivo in assenza di attori politici, un’osservazione/commento/reazione simultanei a eventi o notizie, sulla cui produzione gli spettatori difficilmente possono esercitare un controllo. Oltretutto, il pubblico non chiede maggiore partecipazione, bensì visione totale e trasparenza assoluta. I cittadini di una “democrazia del pubblico” sono ansiosi di prendere parte allo spettacolo della politica come se fosse una recita popolare e, quando vi partecipano direttamente, lo fanno rispondendo con l’azione diretta a notizie o dichiarazioni fatte circolare dal web o dai mass media (Manin 1997; Green 2010). La richiesta di trasparenza è sintomatica del mito del “vedere e sapere tutto”. In effetti, l’obiettivo della trasparenza è tutt’altro che semplice da raggiungere, perché l’industria della trasparenza (la categoria dei professionisti e tecnici della comunicazione e dei media) ha come fine la diffusione di notizie o immagini in grado di produrre determinate reazioni emotive (come ammirazione, invidia o repulsione). Il produrre effetti emotivi è la funzione dei mass media e anche del web, che in questo modo tende a riprodurre una non-trasparenza nel momento stesso in cui promuove trasparenza e conoscenza onnicomprensiva (Luhmann, 2000). Come dimostrato dalla videocrazia di Silvio Berlusconi, rendere il leader visibile e oggetto di costante esposizione può generare un’opacità mascherata da pubblicità (Sartori, 1997). Oltretutto, la trasparenza cambia la pratica della cittadinanza, e soprattutto il tenore dei rapporti politici, perché può impedire la mediazione e il compromesso, due strategie che aprono il varco al poter decisionale (di decisioni del resto vive la politica). I frequentatori del blog di Grillo, così come i parlamentari del M5S, si sono dimostrati ostili alle pratiche della mediazione e del compromesso – spesso liquidate come doppiezza e disonestà – contrastandole con espressioni dirette della propria volontà postate sui blog e sui social media. Ma gli effetti della trasparenza nel processo politico potrebbero ostacolare invece che indurre alla sincerità a cui fa appello Grillo. Per esempio, la pratica dello streaming che i parlamentari del M5S hanno utilizzato durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, ha puntato più a consolidare la lealtà degli affiliati al movimento che non a trovare un compromesso con il Pd per poter formare un governo. Internet ha anche cambiato la natura del pubblico, e non solo nel contesto delle elezioni e della rappresentatività. Di fatto, agevola la circolazione di opinioni la cui prima fonte individuale è quasi sempre impossibile da identificare. La democrazia internettiana depersonalizza l’interazione tra gli individui nel momento stesso in cui rende il dominio privato (la comunicazione tra singoli) l’unico praticabile in politica. Il paradosso della produzione di opinione come potere che assorbe la cittadinanza nella sua totalità è il seguente: da una parte, la pratica dello streaming e la partecipazione visiva via Internet rassicurano i cittadini sul fatto di aver riguadagnato potere sugli eletti, ma dall’altra vedere le cose mentre accadono non garantisce in alcun modo agli spettatori un controllo sulle intenzioni che guidano i soggetti dell’azione (Urbinati, 2014).
Tali cambiamenti nella forma e nel significato sia della partecipazione che della responsabilità dei cittadini sono ulteriori segnali del mutamento radicale che la pratica della democrazia sta attraversando. L’istituzione soggetta alle maggiori trasformazioni come conseguenza di questo processo di cambiamento è la rappresentanza politica in sé. In virtù dei cambiamenti che hanno coinvolto gli organi intermedi che rendono possibile la rappresentanza, i cittadini hanno contestato e perfino rigettato i partiti e i media professionali, come i casi di Islanda e Italia dimostrano. Finora, i partiti politici hanno reso possibile la rappresentanza articolando gli interessi e tenendo vivo il pluralismo, scindendo gli interessi sociali dalle istituzioni statali, e integrando il libero mandato con il mandato politico (in modo che il controllo sulle azioni dei rappresentanti resti nell’ambito del partito benché non possa essere imposto per legge) (Calise, 2010). I partiti hanno permesso alla società civile di avere voce in capitolo nel processo politico decisionale senza farne una protagonista in grado di influenzare direttamente le scelte politiche a vantaggio di alcuni interessi e a scapito di altri (Bobbio, 1984). Per quanto in modo imperfetto, i partiti sono riusciti a trovare un equilibrio tra le varie utilità e, così facendo, hanno protetto relativamente bene le istituzioni dalla disparità di potere che caratterizza la società civile, senza annullare la relazione tra quest’ultima e lo Stato.
Quindi che fisionomia potrebbe assumere la democrazia rappresentativa con la partecipazione internettiana e senza i partiti politici? Il modello proposto dal M5S, e applicato in misura ancor più radicale in Islanda, può trovare attuazione anche altrove? Più nello specifico, da quando l’identificazione della democrazia con determinate procedure ha iniziato a essere contestata in virtù dell’aspirazione a una partecipazione più sincera e non mediata, come possiamo essere certi che la maggioranza resti il fulcro nevralgico e propulsivo della democrazia se l’opinione viene generata principalmente dalla minoranza più attiva, vale a dire dai cittadini che partecipano con più costanza sul web o nelle strade? Come possiamo essere certi che il “popolo sovrano” che la democrazia rappresentativa era riuscita a normativizzare con procedure e regole ben congegnate non si identifichi con la “folla” o con la massa indistinta di attivisti del web o con quanti hanno i mezzi per usare Internet in modo più professionale? Come possiamo difendere l’uguaglianza politica nell’ambito di un movimento di opinione che premia chi fa la voce più grossa o ha più tempo a disposizione da passare in Rete? Questi interrogativi ci danno il senso delle profonde implicazioni di quella che ho chiamato “democrazia rappresentativa in diretta”.
Conclusioni
Il paradosso da cui ho iniziato questo articolo sull’egemonia dell’ideale democratico e l’attuale disaffezione per le istituzioni esistenti suggerisce una curiosità critica rispetto all’analisi imparziale dei nuovi processi. Il paradosso è del resto conforme alla duplice natura della democrazia: un sistema politico radicato nello Stato ma che rappresenta anche una modalità di agire politico a favore dei liberi cittadini. Tale duplice identità è all’origine della sua straordinaria forza innovativa e della sua energia, in grado di sovvertire il potere consolidato, rigettare il fatalismo dello status quo e soprattutto, disintegrare la chiusura pregiudiziale nei confronti di ciò che di nuovo può nascere. Hannah Arendt definisce la politica come “natalità”, ovvero come il dare vita a nuove forme di potere tramite un processo di pubblica interazione tra cittadini liberi e alla pari che scelgano di affidarsi solo alle parole e alla persuasione (Arendt, 1959: 7-9). Stiamo oggi assistendo a una nuova ondata di politica creativa e procedure che riplasmano la democrazia, per quanto forse in maniera meno poetica rispetto all’esperienza rivoluzionaria che ha ispirato la Arendt. Ma l’innovazione democratica ha luogo nel magma del prosaico, della vita quotidiana piena di contraddizioni, eventi e complicazioni che possono spesso risultare spiacevoli: e finché il gioco è in atto, può evolversi in una qualsiasi delle molte possibili direzioni, ognuna delle quali verosimilmente contrapposta alle altre. Le mutazioni a cui stiamo assistendo parlano di natalità nel contesto dell’ordinario, e il caso dell’Islanda è particolarmente interessante, così come i suoi risultati sono di certo i più radicali e il suo esito potrebbe essere il più promettente. L’incertezza delle conclusioni attesta l’apertura e il rischio intrinseci alla sperimentazione democratica. Prima che si tenesse il referendum consultivo di ottobre 2012, tre costituzionalisti espressero la propria opinione sulla bozza di Costituzione. La giudicarono il prodotto di un “processo partecipativo straordinariamente innovativo”, senza precedenti per la sua inclusività (di certo il più inclusivo processo costituzionale che aveva avuto luogo dopo la Seconda Guerra mondiale). Dopo il referendum, la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa intraprese una seconda e ancora più ampia analisi internazionale. Il verdetto emesso dalla Commissione a marzo 2013 ha confermato il parere degli esperti: ha sottolineato l’importanza della natura partecipativa del processo di elaborazione della bozza, così come del coinvolgimento diretto dei cittadini nella stesura della legge fondamentale. Tuttavia, la Commissione non ha risparmiato nemmeno le critiche al documento, sottolineandone il numero relativamente alto di provvedimenti formulati in termini “troppo vaghi e ampi”, e le proposte di meccanismi deliberativi e partecipativi “troppo complessi” (Bergsson e Blokker 2013: 31). Tutto considerato, però, la Commissione si è mostrata aperta al possibile, rivelando un atteggiamento attento e non censorio nei confronti dei mutamenti della democrazia. I comuni cittadini in azione sono stati criticati per la mancanza di esperienza in ambito legislativo, ma è stata anche loro riconosciuta la capacità di produrre un documento costituzionale convincente. In realtà, gli islandesi non volevano sostituirsi alle istituzioni e il loro operato presumeva che la bozza di Costituzione sarebbe stata trasferita all’Alþingi per essere completata. Se non che, una volta che il documento ha raggiunto le sedi istituzionali, il processo si è bloccato. I partiti della coalizione emersa dalle ultime elezioni non sono riusciti a raggiungere un consenso sulla Carta, e il risultato è che gli islandesi sono ancora in attesa che la loro Costituzione venga approvata. Il caso dell’Islanda testimonia ancora una volta la duplice identità della democrazia, i suoi tratti sia istituzionali che extra-istituzionali, e come la rottura dell’equilibrio tra essi possa diventare fonte di tensioni. I casi di Islanda e di Ungheria dimostrano come la posizione assunta dall’establishment dovrebbe preoccupare ben più delle azioni innovative intraprese dai cittadini nel tentativo di riprendersi la propria autorità sul processo politico.
Bibliografia
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Nadia Urbinati, Democracy Disfigured: Opinion, Truth and the People (Harvard University Press, Cambridge, MA 2014)Vai a www.resetdoc.org
Published 23 April 2014
Original in Italian
Translated by
Chiara Rizzo
First published by Reset DOC (Italian version); Esprit 8-9/2013 (French version); Transit 44/2013 (German version); Eurozine (English version)
Contributed by Reset © Nadia Urbinati / Reset / Eurozine
PDF/PRINTPublished in
In focal points
- The global politics of protest
- Dynamics of inequality
- Between hegemony and distrust
- The unpredictability of politics in the age of social media
- After democratic transition
- Two-and-a-half theories
- Living in the matrix
- When the feet become the head
- The future council
- Is China more democratic than Russia?
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