In quest’intervista per i trent’nni di Eurozine e della caduta del muro di Berlino, il politologo Ivan Krastev torna sulla sua tesi secondo la quale le democrazie illiberali in Europa orientale si inseriscono in una contestazione globale dell’egemonia occidentale, e discute della fine che hanno fatto le speranze dell’89.
Ivan Krastev e Stephen Holmes sostengono che illiberalismo nell’Europa centro-orientale è oggi parte di una contestazione globale dell’egemonia liberale occidentale. In un’intervista con Eurozine, Krastev elabora questa tesi, discutendo di ciò che è successo alle speranze dell’89, del perché la dissidenza non può essere equiparata all’anticapitalismo o addirittura al liberalismo, e del perché spiegare il nuovo autoritarismo come reazione all'”imperativo dell’imitazione” non è banalizzarne la sostanza ideologica.
Simon Garnett: in The Light that Failed, il suo nuovo libro scritto in collaborazione con lo scienziato politico Stephen Holmes, fornisce un’interpretazione convincente degli sviluppi politici dal 1989, in particolare l’ascesa dell’illiberalismo nell’Europa centro-orientale e in Russia, ma anche negli Stati Uniti e in Cina. C’è un passaggio nell’introduzione che riassume in modo chiaro la sua argomentazione. Lei scrive che, “dopo un primo periodo di eccitazione per la prospettiva di copiare l’Occidente, in un mondo caratterizzato dalla mancanza di alternative politiche e ideologiche, è sorta la ripugnanza contro la politica dell’imitazione. Questa mancanza di alternative, piuttosto che l’attrazione gravitazionale di un passato autoritario o l’ostilità storicamente radicata al liberalismo, è ciò che meglio spiega l’ethos antioccidentale che domina oggi le società post-comuniste”. Può elaborare? In particolare, cosa intende con “politica dell’imitazione”?
Ivan Krastev: Sono rimasto molto colpito da una cosa che Ben Rhodes, amico e consigliere di Barack Obama, ha scritto nel suo resoconto della presidenza di quest’ultimo. Il giorno in cui Obama lasciò la Casa Bianca e Trump stava entrando, la domanda che si poneva era: “E se ci fossimo sbagliati?” Non “Cosa è andato storto?” Non “Che cosa abbiamo fatto di sbagliato”. Si trattava di un’autocritica da parte delle persone al centro del paradigma che esaminiamo nel libro, di cui condividevamo anche le illusioni. Per noi, la domanda era: “E se avessimo sbagliato la natura del periodo post-guerra fredda? E, se così fosse stato: “In che misura abbiamo sbagliato a capire da dove viene il sostegno a Trump?”
Stephen Holmes ed io sosteniamo che c’era qualcosa di molto specifico nel periodo successivo al 1989. La fine della storia di Francis Fukuyama è stata ridicolizzata, soprattutto di recente, ma ha catturato qualcosa di molto importante dell’atmosfera di quel periodo. Contrariamente a come è stato dipinto, il suo non era un libro trionfalista. Il trionfalismo è emerso alla fine degli anni Novanta, ma non era l’atmosfera dei primi anni Novanta. Al contrario. Leggendo i titoli dei principali libri e articoli pubblicati in Occidente tra il 1989 e il 1992, c’è nervosismo. L’esempio classico era Out of Control di Zbigniew Brezinki. Le persone erano entusiaste, e allo stesso tempo molto spaventate.
Il periodo della guerra fredda è stato definito da uno scontro di due ideologie universalistiche – liberalismo occidentale e comunismo sovietico – entrambe nate dalla tradizione dell’Illuminismo europeo. Il periodo del dopoguerra fredda, al contrario, è stato definito dalla mancanza di alternative ideologiche. Questo è il nostro primo grande argomento. Parte del successo del libro di Fukuyama, soprattutto a Est e tra le élite post-comuniste, è stato quello di aver toccato qualcosa di molto profondo nell’educazione marxista-hegeliana della gente.
Per molti pensatori e politici ex comunisti era molto più facile accettare che il capitalismo e la democrazia erano la fine della storia, piuttosto che la storia non finisce affatto.
L’idea di sviluppo storico-teleologico, di progresso, di movimento in una certa direzione, era molto forte. Da qui è nata la sensazione che non ci fossero alternative. La nostra seconda grande argomentazione è che la divisione tra democrazia e comunismo, tra libertà e totalitarismo, tipica della guerra fredda, è stata sostituita dalla divisione tra società che erano già democrazie liberali e quelle che volevano diventarlo. Questa è la distinzione tra l’originale e la copia.
Fukuyama non era innamorato dell’idea della fine della storia. Al contrario, egli credeva che l’era post-’89 sarebbe stata noiosa, che sarebbe mancato l’eroismo e sarebbe stata prevalentemente consumistica. Inoltre, non credeva che ogni paese sarebbe diventato una democrazia liberale nei giro di dieci o vent’anni. Ma ha detto che quelli che non ci sarebbero riusciti avrebbero dovuto fingere di essere delle democrazie liberali per sopravvivere. Questo è l’elemento chiave della fine della storia: ci sarebbero state ancora delle non democrazie, ma non erano più il modello. Cuba e la Corea del Nord possono sopravvivere, ma chi vuole essere così? Nel libro sosteniamo che questo periodo sta per finire.
Quando parliamo dell’età dell’imitazione, non riteniamo che qualcosa sia stato imposto alle società post-comuniste. L’imitazione non è imposizione, non è colonizzazione. È stata una nostra scelta, ed è in parte per questo che la storia è così dolorosa. L’Occidente non è venuto e ci ha ordinato di farlo. Volevamo farlo. La parola chiave del 1989 era “normalità”. Non si trattava di un futuro proiettato. Volevamo una società normale, cioè una società come l’Occidente, o almeno come immaginavamo l’Occidente. E comunque imitare l’Occidente era la nostra scelta. Essere imitatore in un mondo che si è innamorato dell’originalità è stata un’esperienza umiliante. I partiti politici e i leader sono stati in grado di sfruttare il risentimento verso l’imperativo di imitare. Ma basano la loro politica non tanto su alternative concrete, ma su una semplice resistenza. L’idea che non dobbiamo copiare, che abbiamo il nostro proprio stile, è fondamentale per il linguaggio politico di Viktor Orbán e Jarosław Kaczyński, gli uomini forti dell’Ungheria e della Polonia.
SG: Lei contrappone il “comunitarismo intollerante”, che è la risposta all’imperativo dell’imitazione nell’Europa centro-orientale, con l’”imitazione della democrazia” in Russia negli anni 1990, e la “specchiatura” russa dell’Occidente dall’inizio di questo decennio. Può spiegare come la reazione russa alla caduta del comunismo sia stata diversa da quella dell’Europa centro-orientale?
IK: È stato particolarmente doloroso per i russi non essere in grado di capire come e perché l’Unione Sovietica sia crollata. L’URSS era una potenza nucleare, non c’era un’invasione straniera eppure, all’improvviso, è crollata. Questa umiliante e incomprensibile sconfitta diede origine a teorie cospirative sul tradimento del paese da parte delle élite. Nel 1989-1992 il comunismo aveva esaurito il suo potere di mobilitazione. La maggior parte della popolazione russa voleva che finisse, senza avere un’idea chiara di cosa volesse al suo posto. Ma per i russi, l’Unione Sovietica e il comunismo non erano la stessa cosa. L’Unione Sovietica era il loro paese e non capivano perché dovesse crollare con un’ideologia allo stremo. Anche se questo può sembrare ovvio agli estranei, non lo era per i russi.
Dopo il 1989, l’approccio occidentale era che “siamo tutti vincitori”, che gli americani, i russi e gli europei dell’est avevano trionfato insieme. Tuttavia, dopo che la Russia ha perso un terzo della sua economia nella depressione del 1993, non è stato facile convincere i russi a considerarsi vincitori. Per gli europei dell’est, questa situazione era diversa per molte ragioni. Prima di tutto, il comunismo è stato inquadrato come occupazione straniera. In secondo luogo, c’era la prospettiva di aderire all’Unione europea. In terzo luogo, erano liberi di viaggiare. In quarto luogo, dopo il primo periodo di transizione, c’è stato un cambiamento economico positivo, almeno per alcune parti della popolazione.
Molti in Russia erano molto interessati a democratizzare il proprio paese, ma sapevano che sarebbe stato un processo doloroso, a causa della portata dei cambiamenti e delle conseguenze della disintegrazione. Per loro, imitare l’Occidente era un modo per sopravvivere. La strategia speculare iniziata con il secondo mandato di Putin segnò la fine di questo modello di imitazione. D’ora in poi si trattava di dimostrare all’America che la Russia era alla sua pari.
Lo scopo dell’ingerenza della Russia nelle elezioni americane del 2016 non era di avere un presidente che potessero controllare, ma di mostrare all’America che la Russia poteva fargli ciò che essa aveva fatto loro.
SG: L’ultimo capitolo del libro tratta della svolta illiberale negli Stati Uniti e in particolare del suo legame con l’ascesa di una Cina pronta a contestare l’egemonia statunitense. Lei sostiene che questo sviluppo “segna la fine dell’era dell’imitazione così come noi la intendiamo”.
SG: L’ultimo capitolo del libro tratta della svolta illiberale negli Stati Uniti e in particolare del suo legame con l’ascesa di una Cina pronta a contestare l’egemonia statunitense. Lei sostiene che questo sviluppo “segna la fine dell’era dell’imitazione così come noi la intendiamo”.
IK: Andiamo oltre l’Europa centrale e orientale perché l’eredità del 1989 non si limita a questa regione. Il 1989 ha trasformato l’Occidente non meno di quanto abbia fatto con l’Est, e questo tende a perdersi nel dibattito. Il discorso occidentale si concentra su ciò che sta accadendo a Est, un’ossessione che affonda le sue radici nella paura di affrontare i problemi delle democrazie occidentali. La questione più importante è fino a che punto le democrazie liberali erano condizionate dall’esistenza della guerra fredda. Esaminiamo come gli Stati Uniti sono stati colpiti dalla fine dell’era dell’imitazione. Come ha iniziato il modello imitato a vedersi vittima del mondo che aveva creato? Trump dice agli americani che non sono i leader del mondo, ma un ostaggio del mondo – a causa di tutte le guerre che pensano di dover combattere; a causa della loro politica commerciale, che è restrittiva alla luce dell’economia cinese. Per Trump, l’unica risposta può essere che gli Stati Uniti si concentrino sui propri interessi. Questa è la fine dell’eccezionalità americana. Il messaggio radicale di Trump è stato che l’America non è migliore degli altri, ma semplicemente più forte degli altri e, se necessario, altrettanto cattivo.
Questi cambiamenti sono cruciali per capire non solo perché il periodo post-’89 si è concluso, ma anche perché si sta disintegrando in questo modo. Può essere facile raccontare la storia della crisi della democrazia liberale in termini puramente economici, ma questo non spiega il percorso politico della Polonia, per esempio. Ed è facile dire che tutto quanto è il risultato di un’ingerenza russa, che pure è dimostrata. Ma non dobbiamo cadere nella trappola della quale i russi sono rimasti prigionieri negli ultimi tre decenni, imputando tutto quello che è successo alla Russia a una cospirazione occidentale. La capacità della Russia di mobilitare gli elettori contro i propri collegi elettorali si basa su alcuni difetti delle nostre democrazie. Il problema è interno, anche se può essere tattico esternalizzarlo.
Stephen Holmes e io non crediamo di essere tornati alla guerra fredda. Lo scontro Cina-USA plasmerà il nostro mondo in futuro, ma non crediamo che ci sarà uno scontro tra due progetti ideologici. Uno dei nostri argomenti principali è che la Cina non sogna di essere imitata dal resto del mondo. La Cina non crede di poter essere imitata. Questo non solo perché crede nella superiorità della cultura cinese, ma anche perché il suo modello di avere e proiettare il potere non si basa sulla creazione di copie. Alla Cina manca l’aspirazione universalista che era parte integrante della politica occidentale dopo la fine della guerra fredda.
Si sente spesso descrivere la crisi dell’egemonia liberale come una crisi del liberalismo, ma io non ci credo. L’egemonia liberale è stato un momento eccezionale, nato da uno sviluppo eccezionale. Il fatto che non tutti i paesi del mondo siano diventati democrazie liberali non significa che i diritti umani non siano più considerati rilevanti, o che l’autoritarismo prevarrà ovunque. Al contrario, i movimenti populisti parlano sempre di diritti. Il problema è; diritti di chi? I diritti difesi dai populisti sono quelli delle maggioranze, della nazione. Il movimento anticoloniale è diventato il modello dell’estrema destra dell’Europa occidentale. In questa appropriazione del linguaggio dei diritti, l’Occidente è ora il colonizzato, l’anticoloniale. Trump ne è il miglior esempio. Questa inversione dei più vulnerabili e svantaggiati con i più potenti e privilegiati è una perversità dell’immaginazione politica che trovo tipica del momento contemporaneo.
Réka Kinga Papp: Lei mette in guardia contro la tentazione di leggere la storia a ritroso da una data serie di eventi. Il trionfalismo liberale degli anni Novanta era il prodotto di questo pensiero teleologico. Ma non state forse rileggendo anche voi stessi gli ultimi trent’anni, se non gli ultimi sette decenni prima del 1989, alla luce della situazione attuale? Come si può evitare la teleologia quando si parla dell’89 oggi?
IK: Nelle storie teleologiche si sa cosa sta per accadere e si pensa in termini di progresso e regresso. Vediamo la storia in modo molto più aperto. Non volevamo raccontare la storia dei decenni dal 1989 in termini di perché le cose sono andate male e cosa avrebbe potuto essere fatto diversamente. Probabilmente avrebbero potuto essere diverse, ma non lo sappiamo. Il nostro argomento principale è che c’è stato un compromesso tra egemonia e pluralismo. Abbiamo perso l’egemonia ma abbiamo avuto la possibilità di reinventare il pluralismo.
Non siamo fatalisti. Il 1989 non riguardava la fine della storia, ma l’apertura futura. Improvvisamente, la gente ha potuto immaginarsi in mondi diversi, reinventarsi. Questo può essere stato spesso illusorio, ma è stato anche responsabilizzante. Era come se si potesse decidere qualsiasi cosa. Il 1989 è stato un momento unificante di speranza – o meglio, di speranze. Alcuni speravano in un tenore di vita migliore, alcuni nella libertà, altri nella gloria del loro paese – anche se non condividevano un’ideologia, condividevano un momento.
1989 ha plasmato le persone, indipendentemente dalla loro politica. Libertà non era solo un termine politico. La mentalità delle persone è cambiata da un giorno all’altro. Immaginiamo lei sia stata un’impiegata di mezza età da qualche parte in Bulgaria: improvvisamente poteva immaginare di diventare una grande donna d’affari. Probabilmente non ci avrebbe mai provato, e le possibilità di successo erano comunque minime, ma il punto è che ha iniziato a fare sogni che non aveva mai fatto prima. Queste speranze hanno giocato un ruolo anche nelle frustrazioni che sono seguite, minando la legittimità di quanto accaduto nell’89.
La maggior parte delle rivoluzioni sono legittimate non dall’adempimento delle loro promesse, ma dal senso di rivincita che danno. Ma le rivoluzioni liberali dell’89 sono state guidate da persone traumatizzate dall’esperienza del comunismo. Non volevano comincire una rivoluzione che divorasse i propri figli. La nomenklatura dell’ancien régime ha quindi potuto integrarsi nel nuovo mondo. Questo è diventato una vulnerabilità: l’idea della rivoluzione tradita mantenendo al potere le stesse persone. La rivoluzione dell’89 non prometteva che gli ultimi saranno i primi: prometteva che tutti potevano essere i primi.
SG: Il “panico demografico” è al centro della sua spiegazione dell’emergere dell’illiberalismo nell’Europa centro-orientale – l’idea che l’etno-nazionalismo è un sinonimo della paura della scomparsa nazionale.
IK: Normalmente i rivoluzionari vogliono vivere nel futuro. Trotskij credeva di essere al centro del mondo, che lui era il futuro. Dopo le rivoluzioni c’è di solito un esodo, ma soprattutto della parte sconfitta. Dopo l’89, però, sono stati i vincitori a partire. Non si può immaginare che Trotskij si sia fatto una borsa di studio a Oxford dopo la rivoluzione russa, come hanno fatto Orbán e altri intorno all’89. Il mondo si è aperto e il futuro era dietro l’angolo; aveva la forma di un tuo immediato vicino dell’ovest. Molti di coloro che hanno investito nella svolta democratica sono stati i primi ad andarsene dopo che è avvenuta. L’impatto di questo esodo di persone capaci dall’Europa centrale e orientale è sottovalutato, non in termini economici, ma come fattore politico.
La maggior parte degli europei dell’Europa centrale e orientale afferma che la cosa migliore che gli è successa dopo il 1989 è stata la libertà di viaggiare e lavorare all’estero. Allo stesso tempo, circa la metà di tutti gli ungheresi e dei polacchi sosterrebbe azioni governative volte a limitare la capacità dei cittadini di lavorare all’estero per periodi di tempo più lunghi. Il meglio e il peggio sono gli stessi: il meglio è che posso uscire; il peggio è che troppe persone stanno facendo proprio questo. Questo è diventato parte della retorica nazionalistica di Orbán e Kaczynski. Non si tratta tanto degli immigrati, che comunque non arrivano, ma di cercare di impedire alla propria gente di andarsene.
L’Europa orientale si trova di fronte allo stesso problema che la Germania orientale ha affrontato nel 1961: la popolazione in età lavorativa lascia il paese – per motivi politici ed economici. La gente semplicemente non vuole rimanere in un paese che ti dice come vivere e come respirare. La carenza di manodopera spaventa gli investitori, il che fa crollare ulteriormente l’economia. Tutto il denaro investito nell’istruzione delle persone se ne va con esse, e si finisce con una popolazione che invecchia. Questo porta a quello che i demografi chiamano un alto tasso di dipendenza, dove un numero molto piccolo di persone in età lavorativa deve sostenere un gran numero di persone anziane. Il cuore del sostegno populista non è la paura di un mondo senza confini, ma la paura delle città senza medici. Diecimila medici hanno lasciato la Bulgaria negli ultimi due anni. E poi gli stessi governi che hanno causato i problemi si pongono come il patriarca benevolo, sostenendo di essere l’unico a prendersi cura di te.
SG: Sostenendo che l’illiberalismo è una risposta razionale a una vera crisi demografica, lo state in qualche modo legittimando? Questo, almeno, è ciò che Aleida Assmann ha sostenuto in risposta a un precedente articolo che ha scritto insieme a Stephen Holmes, e nel quale delinea la tua teoria dell'”imperativo dell’imitazione”. Qual è la sua risposta all’accusa di Assmann di non condannare a sufficienza la sostanza ideologica dell’etno-nazionalismo illiberale?
IK: Sono molto grato alla professoressa Assmann per la sua risposta alla nostra ipotesi sull’imitazione. Le sue argomentazioni sono ben accolte e il suo articolo è scritto molto bene. Ma, naturalmente, abbiamo i nostri disaccordi. Non ho mai sottoscritto l’idea secondo la quale “capire” equivale a “giustificare”. L’analisi del populismo non può ridursi al rifiuto morale. Bisogna stare attenti a etichettare tutti i propri avversari come irrazionali. Naturalmente, i populisti strumentalizzano le paure delle persone. Ma tutte quelle persone nelle campagne ungheresi che hanno votato per Orbán in tutti questi anni possono essere considerate del tutto irrazionali? Possiamo ridurre tutto ai meccanismi di potere? Una cosa è farlo con l’Ungheria, ma che dire della Polonia, dove i mezzi d’informazione sono abbastanza pluralistici? Certo, il governo polacco controlla i mezzi d’informazione pubblici, ma non si può dire che i polacchi non hanno accesso ad altri punti di vista.
Sostenere di aiutare in qualche modo i leader populisti dicendo alla gente che le loro paure sono legittime è andare in una direzione che sia Stephen Holmes che io riteniamo molto rischiosa. Se cominciamo a dire la verità, o quella che crediamo essere la verità, solo quando funziona per noi, allora a un certo punto non saremo molto diversi da alcune di quelle persone che non ci piacciono molto. Questo è un dilemma morale che vediamo sempre più spesso nella vita politica di tutti i giorni. Stiamo legittimando l’altra parte semplicemente condividendo un palco con essa? Parteciperemmo a una discussione con Steve Bannon o Mária Schmidt? A quali condizioni dovremmo farlo o rifiutare? Penso che questa sia una domanda molto importante.
RKP: Nell’Europa centrale e orientale, la demografia è stata una questione centrale in tutta la formulazione della nazione. La letteratura nazionalista romantica ruota attorno a questo problema. Gli ungheresi hanno trascorso due secoli terrorizzati dalla profezia di Herder, secondo cui sarebbero sprofondati nel diluvio di parlanti slavi. Più tardi, Nicolae Ceaușescu disse subito che il bacino dei Carpazi sarebbe appartenuto a coloro che lo hanno partorito in pieno. Questo è un elemento centrale della biopolitica.
IK: Quello che i populisti non hanno è una società modello con un fascino universale. Questo rende il nazionalismo autoritario molto diverso dal comunismo, che – che uno sia d’accordo o meno – era una visione universale del mondo. Non credo che il modello di Orbán possa viaggiare come vorrebbe. È troppo precondizionato da una tradizione politica e troppo radicato in circostanze particolari. L’Europa centro-orientale è estremamente omogenea dal punto di vista etnico, come risultato della seconda guerra mondiale e degli sviluppi successivi – pulizia etnica, distruzione e così via. L’Ungheria è fondamentalmente uno Stato monoetnico, il che crea il timore della diversità etnica e della scomparsa nazionale. Non si può nemmeno spostare il modello Orbán in Austria. Stiamo parlando di due realtà sociali molto diverse.
Il rapporto tra nazionalismo e democrazia nell’Europa centro-orientale dopo il 1989 è molto diverso da quello che è successo nell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945, il male era il nazionalismo. Ma nell’Europa centrale e orientale, l’internazionalismo era la lingua dei comunisti. Il nazionalismo è sempre stato parte della coalizione anticomunista, ed era particolarmente forte in Polonia. I liberali e i nazionalisti formarono una coalizione per rovesciare il comunismo, e nel 1989, a differenza del 1945, molti nazionalisti si sentirono vincitori. Nei primi anni questo era abbastanza evidente. Se si considerano alcuni dei leader postcomunisti del 1990, il loro principale modo di rivendicare la legittimità è stata la retorica nazionalista. Ma poi sono arrivate le guerre jugoslave. Quello che è accaduto nei Balcani ha profondamente plasmato il periodo del dopoguerra fredda. In primo luogo a causa dei timori che le guerre hanno suscitato. In secondo luogo perché il nazionalismo era ormai molto associato agli ex comunisti – il leader serbo Slobodan Milošević era il modello nazionalista. Orbán era molto più opportunista, ma Kaczynski rimase coerente nella sua visione del mondo: non poteva parlare la lingua del nazionalismo perché non riusciva a identificarsi con Milošević. Così facendo, avrebbe invalidato l’intera sua biografia.
Ci volle l’11 settembre e l’ascesa dell’islamofobia perché queste persone tornassero indietro e coniugassero l’idea di democrazia con la sovranità nazionale. Ciò che rende questi leader molto diversi dai classici dirigenti autoritari è che non si può immaginare nessuno di loro senza elezioni. E qui torniamo alla questione demografica. Ricorderete che nel 1953, dopo la rivolta anticomunista a Berlino est, Brecht chiese se non sarebbe stato più semplice per il governo “sciogliere il popolo ed eleggerne un altro”. Paradossalmente, la libertà di movimento ha reso possibile tutto questo. Facendo diversi giochi con le istituzioni, i governi di molti paesi dell’Europa orientale hanno potuto eleggere un “altro” popolo.
Se sei un ungherese che vive in Transilvania, votare alle elezioni ungheresi è facile. Se sei uno dei tanti ungheresi che vivono a Londra, d’altra parte, c’è un solo seggio elettorale. Questo è un grande cambiamento nel modo in cui funzionano le democrazie.
In una società polarizzata con un’informazione parziale non si tratta di cambiare idea, ma di mobilitare la propria parte e smobilitare l’altra. Si può fare questo attraverso decisioni istituzionali. Se hai intenzione di destituire dei suoi diritti una grande diaspora che vive nell’Europa occidentale, e allo stesso tempo dare potere a una diaspora che vive in un paese vicino, allora, in un certo senso, stai eleggendo il tuo popolo.
Molte delle cose che vediamo a Est avvengono anche dalla parte occidentale – non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Naturalmente, l’omogeneità etnica nell’Europa centrale e orientale rende molto più facile la mobilitazione. Secondo i sondaggi gli ungheresi che affermano di aver visto un UFO sono più numerosi quelli che sostengono di aver conosciuto personalmente o incontrato un rifugiato. Nell’Europa centrale e orientale, l’Altro è totalmente immaginario, astratto. I populisti stanno sfruttando qualcosa che c’è già lì.
SG: La Germania esce male nel vostro libro. Dedicate un capitolo alla “nuova ideologia tedesca”, che lei descrive come “post-nazionalismo de-storicizzato e patriottismo costituzionale culturalmente blando”. Ma l’Unione europea non è mai stato un progetto post-nazionale, al contrario. È una cosa di cui si parla poco nei discorsi di sinistra in Germania. L’altro aspetto della sua critica alla Germania riguarda il tentativo di sostituire all’ingrosso le élite comuniste dopo l’89, sul modello della reintegrazione degli ex nazisti negli anni Cinquanta.
IK: Siamo critici nei confronti della Germania perché la ammiriamo e proviamo una sincera simpatia per essa. Ma nessuno può capire l’Europa dell’Est senza comprendere il ruolo centrale che le politiche tedesche e il modello tedesco hanno giocato nella transizione postcomunista. Una domanda importante per me era perché la riunificazione tedesca non è riuscita a diventare un modello per l’Europa centrale e orientale. È molto difficile universalizzare l’esperienza tedesca. In primo luogo, la visione tedesca del nazionalismo è stata profondamente influenzata dal periodo nazista. Era impossibile aspettarsi che i polacchi, che avevano combattuto contemporaneamente i sovietici e i nazisti, vedessero il loro nazionalismo negli stessi termini. La totale illegittimità del nazionalismo, che era assolutamente comprensibile nel caso della Germania, non poteva essere trasferita ad Est. Non sto criticando i tedeschi per quello che hanno fatto, ma credo che abbiano trascurato il contesto eccezionale in cui questo è accaduto.
La seconda cosa è che dopo il 1989, la Germania ha cercato di insegnare all’Europa orientale non come ha fatto le cose dopo il 1945, ma come avrebbe dovuto farle. Per vent’anni c’è stata un’amnesia sul comportamento delle persone durante il periodo nazista. Non sto dicendo che era sbagliato; ad essere assolutamente onesti, non credo che ci fosse scelta. Che questo facesse o meno parte del successo della Germania occidentale, non era certamente qualcosa che la Germania era pronta ad esportare dopo l’89. Questo ha creato risentimento, e spiega in parte i problemi che la Germania dell’Est sta affrontando. La Germania è l’unico luogo in cui è avvenuta la sdecomunisticazione. Ma poiché ha avuto luogo in modo asimmetrico, si finisce con una delle versioni più estreme del populismo di destra. La crisi del modello tedesco è stata ancora più grave perché la Germania era la copia perfetta. In un certo senso era meglio dell’originale. Ma nel momento in cui divenne un modello per tutti gli altri, le si è ritorto contro.
RKP: Dopo la seconda guerra mondiale la legittimità dei regimi sia ad est che ad ovest si basava sulla confessione della Germania della sua colpa esclusiva e incomparabile. Questo sanciva un tabù sulla complicità con i crimini dei nazisti. Questo vale sia in Austria che in Ungheria, Polonia e altrove. Il rifiuto di ammetterlo oggi è una caratteristica tipica della destra populista.
IK: Questo è il motivo per cui la Germania sarà essenziale per il futuro dell’Unione europea. Dopo la seconda guerra mondiale ci sono stati due paesi che non hanno avuto il lusso di parlare di se stessi come vittime. Uno erano gli Stati Uniti, perché erano così potenti, e l’altro era la Germania. Ora, sotto Trump, gli Stati Uniti si presentano come la vittima finale del mondo del dopoguerra fredda. Anche in Germania, alcune forze politiche hanno cominciato a dire sempre più spesso che la Germania è la vittima principale dell’integrazione europea – che tutti vogliono spendere i loro soldi, che sono accusati di tutto. Una parte di ciò è valida. Ma nel momento in cui il più potente diventa la vittima più importante, la legittimità dell’intero progetto viene persa. Questo è uno dei lati più oscuri dell’immaginario di coloro che oggi sono al potere: vogliono essere visti come le vittime, ma possono agire come i cattivi. Questo è ciò che mi spaventa di più.
SG: Il ruolo dei dissidenti dell’Europa orientale è una parte importante della critica di Aleida Assman. Ci sono due aspetti da considerare: primo, che non si considerano i processi transnazionali coinvolti nel movimento per i diritti umani dalla metà degli anni 1970, un processo che precede l’89. Non tenendo conto di questa storia dei diritti umani e del contributo dei dissidenti – e questo è il secondo aspetto – lei sostien la narrazione dell'”imperialismo culturale” occidentale e, indirettamente, la narrazione illiberale. Invece, per dirla con Assmann, il suo dovere come intellettuale europeo avrebbe dovuto essere quello di fornire una narrazione di tipo integrativo e terapeutico. La storia della dissidenza e dei diritti umani, sostiene Assmann, fornisce uno strumento ideale per questo.
IK: Aleida Assmann sostiene che, per salvare il liberalismo, dobbiamo ripristinare la centralità dei diritti umani come idea fondante nella nostra comprensione del 1989. D’altro canto, dice che dobbiamo distinguere tra liberalismo e neoliberismo, per quanto lo si possa definire. Questo era il programma di riforma predominante dopo il 1989. Ma è più facile dirlo che farlo. Ha perfettamente ragione ad affermare che il movimento dissidente ha avuto una forte tendenza anticapitalista. Questo è stato certamente il caso di persone come Václav Havel, Jacek Kuroń e di una parte del movimento Solidarność. Ma nel 1989, alcuni dei principali dissidenti decisero che uno dei temi principali dell’agenda politica dei loro paesi era quello di diventare più simili alle società occidentali, che consideravano “normalità”. Kuroń è stato grande su questo: ha detto che dovremmo prima cercare di costruire il capitalismo e poi combatterlo. I dissidenti decisero che il loro antico anticapitalismo era pericoloso e che non volevano che fosse strumentalizzato. Così, invece, hanno deciso di essere politicamente efficaci.
La terapia d’urto per la transizione economica da socialismo a economia di mercato è stata fortemente sostenuta da Adam Michnik, Kuroń, Bronisław Geremek – alcuni dei nomi chiave della tradizione dissidente. È stata una decisione politica, ed era anche un dilemma morale. Per esempio, Michnik non accettò azioni di Gazeta Wyborcza quando divenne un’impresa commerciale. Stava sostenendo il capitalismo ma non voleva essere un capitalista. Uno dei nostri argomenti principali è che l’occidentalizzazione era su invito. Nessuno imponeva niente a nessuno, siamo stati noi a spingere per ottenere la maggior parte delle cose.
C’è stata un’interessante controversia su un libro di Stephen Kotkin e Jan Gross chiamato Uncivil Society. Il loro argomento principale era, smettiamola di prenderci in giro: La Polonia non è il modello per l’Europa centrale e orientale. La Polonia è il paese dove c’era un movimento anticomunista di massa, con 10 milioni di membri: Solidarność. Ma è stato eccezionale. C’erano centinaia, probabilmente migliaia di dissidenti in Cecoslovacchia e Ungheria, ma è stata l’attrazione del consumismo occidentale più che quella del liberalismo occidentale a decidere l’esito della guerra fredda. I diritti umani erano certamente presenti nell’89 e molto importanti per la sua legittimazione. Ma c’erano anche motivazioni meno lungimiranti dietro la volontà delle società dell’Europa orientale di diventare come l’Occidente.
Parte della legittimità dei difensori dei diritti umani degli anni Settanta e Ottanta è stata quindi utilizzata per giustificare le stesse politiche che Aleida Assmann ritiene delegittimassero la transizione. Dovremmo ricordare che per molte persone nell’Europa centrale e orientale, in particolare per la generazione più anziana, il capitalismo era molto più legittimo della democrazia. Per loro, la democrazia significava votare diversamente ma ottenere lo stesso risultato.
RKP: Parte dell’eredità dei dissidenti sono Orbán e Kaczynski stessi, entrambi cresciuti dal 1989 e non possono essere semplicemente liquidati come anomalie. Un’altra parte enorme di questo patrimonio è costituita da persone come Ferenc Kőszeg – il fondatore del Comitato ungherese di Helsinki – e altri che oggi sono figure centrali in organizzazioni che sono sulla lista nera del governo Orbán. O Paweł Adamowicz, il defunto sindaco di Danzica, un leader studentesco dissidente degli anni Ottanta, che è stato bersaglio di campagne diffamatorie sui media amichevoli di PiS per anni prima di essere assassinatp nel gennaio 2019. L’eredità dei diritti umani e l’auto-organizzazione civica sono il nemico designato di Fidesz e PiS.
IK: L’eredità dei dissidenti è molto più diversificata di quanto sembri. Parte della resistenza anticomunista erano persone come József Antall, un conservatore tradizionale – rispetto a quello che vedete oggi, era un liberale a tutto tondo! Veniva da una tradizione che guardava alla famiglia e alla nazione, basate sui diritti naturali. Naturalmente c’è anche una tradizione di dissidenza molto più liberale e cosmopolita. Aleida Assmann ha assolutamente ragione ad insistere sul fatto che la questione è condivisa tra Est e Ovest.
Direi persino che l’Est era intellettualmente più influente in Occidente negli anni Settanta e Ottanta che negli anni Novanta. Ciò che è interessante è che, nel 1990, c’erano molti simpatizzanti di sinistra in Occidente che credevano che la fine del comunismo avrebbe reinventato la democrazia e il liberalismo. Un esempio è stato Bruce Ackerman, nel suo libro The Future of The Liberal Revolution. C’è stato un grande dibattito sul fatto che avremmo costruito qualcosa di nuovo, o se l’Est sarebbe stato assimilato. C’erano molte più persone in Occidente interessate a trarre qualcosa dall’esperienza dell’Europa orientale.
Questo è importante, perché l’eredità dissidente è stata in gran parte trasformata dal fatto che molti dissidenti erano stati in una posizione di potere, anche se solo per un breve periodo di tempo. Non si può semplicemente biasimare il neoliberismo per quello che è successo, come se non avesse nulla a che fare con i dissidenti, perché il fatto è che i dissidenti hanno deciso di usare il loro capitale politico a sostegno del neoliberismo. E non sto dicendo che si sbagliavano. È molto facile biasimarli per quello che hanno fatto, ma cosa avrebbero dovuto fare? Nessuna di queste persone aveva un’educazione economica, nessuna di loro era interessata ad entrare nel governo. János Kis, filosofo e primo leader dell’opposizione democratica ungherese, ne è un esempio.
RKP: Il carisma di persone come Michnik o Kis è evaporato improvvisamente dopo l’89 – non durante la notte, ma in un periodo di tempo molto breve. L’influenza di altri si è gradualmente gonfiata: Václav Havel, Gáspár Miklós Tamás o Ágnes Heller, per esempio.
IK: Noi intellettuali siamo ipnotizzati dagli intellettuali, ma politicamente non è sempre così che funziona. Nelle prime elezioni parzialmente libere in Polonia nel 1989, la campagna di Solidarność è stata molto semplice: tutti i candidati sono stati fotografati accanto a Lech Wałęsa. Il leader carismatico della rivoluzione polacca non era un dissidente con una visione particolarmente sofisticata del capitalismo e della democrazia: era un operaio, un elettricista. Negli anni Ottanta, Adam Michnik non era tanto un intellettuale liberale quanto il polacco che si opponeva al potere sovietico. Ciò che non si può togliere a Michnik, anche se lo si odia quanto lo detesta l’estrema destra, sono i suoi anni di prigione. Era in prigione e si è comportato in modo incredibile. Anche i suoi critici più radicali non possono negarlo. Allo stesso tempo, in un ambiente attuale definito da una severa polarizzazione, vediamo che le biografie eroiche dei dissidenti non contano più nulla.
Va anche ricordato che gli intellettuali dissidenti hanno facilmente trovato un linguaggio comune con l’Occidente. Coloro che, durante il comunismo, avevano letto in inglese, francese e tedesco si erano sempre sentiti parte di questa conversazione europea. È stata un’esperienza totalmente diversa per la gente comune. Guardate i sondaggi d’opinione ungheresi. Il governo Orbán usa una retorica massicciamente anticomunista, ma allo stesso tempo è molto positivo su János Kádár. Quello che odia del comunismo sono i post-comunisti. In un certo senso, l’anticomunismo è diventato l’attacco dopo l’89 e non prima.
SG: C’è stata una discussione simile tra storici in Germania sul ruolo dei dissidenti a Lipsia e altrove nel 1989. È stato argomentato, in modo controverso, che il loro impatto politico era minore rispetto a quello della massa di cittadini che stavano guardando dall’esterno e che in modo più opportunistico approfittavano del crollo del governo comunista.
IK: Ogni rivoluzione è, almeno nei primi dieci anni, la storia di gruppi minoritari attivi. Pensate ai bolscevichi, o alla rivoluzione francese. Ma quando ci si concentra solo su questi gruppi, si smette di capire certe cose, per esempio i cambiamenti improvvisi nel comportamento di voto. Spesso però non è che le persone hanno cambiato idea, ma molte persone che hanno votato in un certo modo hanno lasciato il paese. In secondo luogo, ci sono nuove generazioni emergenti per le quali tutto questo è storia antica. I giovani sono molto mobili, ma sono una coorte molto piccola. Oggi, nell’Europa centrale e orientale, si possono vincere le elezioni senza ottenere un solo voto da chiunque abbia meno di 25 anni. Questo è il motivo per cui i giovani dovrebbero essere in strada, perché se non lo sono, nessuno li vedrà.
Andando oltre l’Europa dell’Est, vedrete che il futuro è di ritorno non come progetto, ma come incubo. Ci sono due tipi di scenario apocalittico. Uno viene dalla destra, che dice che il futuro distruggerà il nostro stile di vita. Il mondo sarà pieno di stranieri, transessuali, robot e così via. D’altra parte, c’è la nuova generazione politica, che dice: non si tratta di distruggere il nostro stile di vita, si tratta di distruggere la vita.
La gente dimentica il forte impatto psicologico della bomba atomica sulle società europee, in particolare in America e nell’Europa occidentale. Ma se si confronta oggi il movimento antinucleare con il movimento ambientalista, ci sono due importanti differenze. In primo luogo, negli anni Settanta, bastava semplicemente chiedere al governo di non usare la bomba. Ora, i governi vengono attaccati non per quello che stanno facendo, ma per quello che non stanno facendo. Quindi, i manifestanti per le strade devono anche sapere cosa vogliono che facciano i governi. In secondo luogo, in una guerra nucleare, moriremmo tutti insieme. In una catastrofe climatica, noi di mezza età continueremo a goderci la vita. Ma non possiamo essere così sicuri dei nostri figli e nipoti. L’idea di comunità politica sta cambiando. Da un lato, abbiamo persone come Orbán, che sostengono che vogliamo essere come eravamo undici secoli fa. Dall’altro lato, abbiamo giovani che vogliono includere i non ancora nati nella comunità politica. Si tratta di un cambiamento molto interessante. Adesso si tratta delle persone in nome delle quali parliamo, di come descriviamo la comunità politica.
Il saggio di Ivan Krastev The light that failed: A reckoning è uscito in inglese il 31 ottobre per Penguin Books.
Published 14 November 2019
Original in English
First published by Eurozine (English version); VoxEurope (Italian version)
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