In the 1990s, Ukraine again became one of the world’s leading grain exporters after decades of Soviet agricultural mismanagement. It retains this status despite the major disruptions to the European grain market caused by the war.
Il crescente euroscetticismo dei Balcani occidentali
Nel corso degli ultimi due decenni
la percezione diffusa tra i
cittadini dei Balcani occidentali
(i Paesi emersi dalla dissoluzione
della Jugoslavia, meno la Slovenia,
più l’Albania) circa i benefici
che il progressivo avvicinamento
all’Unione europea avrebbe portato
ha contribuito in maniera
importante a sostenere la difficile
transizione post-socialista e, in
molti casi, post-bellica. Dall’inizio
della crisi economica e finanziaria
globale nel 2008, tuttavia, questa
percezione è progressivamente
cambiata, cedendo il passo a un
crescente e sempre più diffuso
euroscetticismo.
I sondaggi mostrano come la popolarità dell’Unione europea nei Balcani sia in progressivo e costante declino, anche se rimane ancora relativamente alta. In Serbia il sostegno all’euro-integrazione è sceso al minimo storico. Mentre nel 2011 la percentuale di cittadini favorevoli all’ingresso nell’Unione europea era intorno al 60%, nel 2013 i sostenitori dell’allargamento risultano essere poco più del 40%. Anche Paesi con una forte tradizione europeista come la Macedonia e il Montenegro hanno registrato cambiamenti significativi. Dall’inizio della crisi finanziaria ed economica globale, il sostegno all’ingresso nella Ue è sceso di circa quindici punti in entrambi gli Stati. In Macedonia i cittadini sono frustrati e delusi dal continuo stallo nel processo di avvicinamento all’Unione. Da quattro anni la Commissione europea raccomanda l’avvio dei negoziati d’accesso, ma questi sono bloccati dal veto della Grecia per via di una disputa, ormai ventennale, sul nome del Paese ex jugoslavo. L’opposizione della Grecia ha anche contribuito a rivelare la scala delle priorità dei cittadini slavo-macedoni, l’80% dei quali preferisce il mantenimento del nome ufficiale di “Repubblica di Macedonia” all’ingresso del proprio Paese nell’Ue. Nel frattempo, la disputa sul nome sta oscurando la profonda crisi politica che il Paese sta attraversando. Il Montenegro, invece, ha iniziato i negoziati d’adesione nel giugno del 2012, ma i capitoli relativi alla lotta al crimine organizzato, alla corruzione e alla protezione della libertà d’espressione si stanno rivelando particolarmente problematici. Le critiche delle istituzioni europee al governo di Podgorica in relazione a questi temi stanno suscitando malumori diffusi nell’élite politico-economica del Paese.
Il sostegno popolare al processo d’ingresso nell’Ue rimane altissimo, invece, laddove tale processo è più arretrato. In Albania, ancora un “candidato potenziale”, una percentuale stabilmente intorno al 90% dei cittadini è a favore dell’integrazione nell’Unione europea. In maniera analoga in Kosovo, di gran lunga il più ritardatario tra gli Stati emersi dal processo di dissoluzione della Federazione Jugoslava, il consenso per l’Europa è quasi plebiscitario. Nonostante il ritardo nel processo di euro-integrazione, o forse grazie a esso, il Kosovo ha celebrato il 9 maggio scorso il “Giorno dell’Europa” con una festività. Diversamente, negli altri Stati dei Balcani occidentali e nella stessa Unione europea il 9 maggio è rimasto un normale giorno lavorativo. Per contro, mentre i Paesi più lontani dall’Europa sono fortemente europeisti, quelli più avanzati nel processo d’integrazione posseggono il più alto tasso di euroscetticismo, come nel caso della Croazia. Questo Paese è diventato il ventottesimo Stato dell’Unione il 1. luglio 2013, un giorno celebrato dall’élite politica come il definitivo distacco dai pericolosi e instabili “Balcani” e come il ritorno nella “casa europea ” dopo un lungo periodo di esilio forzato.
E` dall’inizio del processo di dissoluzione della Federazione Jugoslava che la Croazia ha cercato di valorizzare la propria tradizione europea, sostenendo un’identità sempre meno “balcanica” e sempre più continentale. Questa strategia, descritta in un altro contesto da Edward Said attraverso il concetto di “orientalismo”, ha avuto una larga diffusione nella regione. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta i croati, insieme agli sloveni, hanno iniziato ad auto-definirsi “europei” in contrasto ai serbi, descritti come caratterizzati da tratti “orientali” e “balcanici”. I serbi, da parte loro, hanno cercato di differenziarsi dai veri “orientali”, i kosovari. Questo diffuso sistema discorsivo, basato su preconcetti e immagini stereotipate, è servito a creare nuove gerarchie all’interno della regione avvicinando gli ex membri dell’Impero asburgico (Croazia e Slovenia) all’Europa, e tenendo invece a distanza il resto della regione un tempo sotto dominio ottomano. L’invocazione dell’Europa, inoltre, è servita anche a disciplinare i critici del processo d’integrazione, delegittimandoli come “anti-europei”, “politicamente immaturi” e persino “nazionalisti”. Nel corso del processo di avvicinamento all’Europa, tuttavia, la Croazia ha perso gran parte del proprio slancio europeista, a conferma del fatto che l’Europa è tanto più attraente quanto più è distante. Quando la Croazia iniziò a negoziare i termini della propria adesione all’Unione nel 2003 il sostegno al processo di euro-integrazione era intorno all’85%. Dieci anni dopo, a fronte di un’élite politica ancora largamente a favore dell’ingresso nell’Unione, la grande maggioranza dei cittadini croati è assai distaccata, se non addirittura disinteressata e scettica. Al referendum sull’adesione nel 2012 il 66,2% dei croati ha votato “si`”, ma soltanto il 43,5% degli aventi diritto ha messo la scheda nell’urna. L’interesse per le faccende europee è scemato ulteriormente nei mesi successivi. Alle prime elezioni per il Parlamento europeo tenutesi nell’aprile del 2013 ha votato solo il 20,84% dei croati, eleggendo tra gli altri anche la controversa, fervente euroscettica Ruza Tomasic.
Questo crescente disincanto nei confronti dell’Europa s’intreccia con un aggravamento delle condizioni e prospettive economiche per i cittadini croati. L’ingresso nell’Unione consentirà alla Croazia di accedere a importanti fondi europei – più di undici miliardi di euro tra il 2013 e il 2020 – ma nel breve periodo rischia di portare a un peggioramento dello standard di vita per la maggioranza dei cittadini. Non solo la disoccupazione è alta, attualmente al 21% della forza lavoro, ma è destinata a crescere. Secondo il ministro croato per i trasporti e le telecomunicazioni, Sinisa Hajdas Doncic, la ristrutturazione delle compagnie di Stato porterà al licenziamento di circa 10.000 lavoratori entro il 2014. A questi lavoratori si aggiungeranno quelli dei cantieri navali che l’Unione europea chiede siano privatizzati o chiusi. Mentre queste ristrutturazioni e privatizzazioni proseguono, ulteriori politiche restrittive potrebbero inasprire ulteriormente la situazione. Appena entrata nell’Unione, la Croazia è stata sottoposta a una procedura d’infrazione per via del suo rapporto deficit/Pil al 4,7%. Il rispetto dei parametri di Maastricht potrebbe richiedere tagli allo Stato sociale. Queste misure non potranno che aumentare la tensione sociale in un Paese dove circa il 60% dei cittadini riceve uno stipendio dalle istituzioni pubbliche, mentre circa mezzo milione (su 4,4 milioni di abitanti) riceve un sussidio a seguito della guerra degli anni Novanta.
Oltre a inasprire i rapporti sociali, l’entrata della Croazia nell’Unione comporta nuovi vincoli il cui rispetto potrà contribuire ad aumentare le tensioni e i malumori anti-europei. Sia la pesca che l’agricoltura subiranno importanti limitazioni, costringendo il Paese a importare prodotti che potrebbero invece essere disponibili localmente, come il latte. Una spinosa disputa coinvolge l’Italia, che è il primo partner commerciale della Croazia. Essa riguarda un vino dolce e liquoroso prodotto in Dalmazia da secoli, il prosek. I produttori di prosecco del nord-est richiedono che questo vino cambi denominazione per non trarre in inganno i consumatori europei a danno delle aziende vinicole italiane. Anche se la questione riguarda vini assai poco comparabili e con diffusione molto differente (la vendemmia del 2012 ha prodotto 230 milioni di bottiglie di prosecco ma solo 120 mila bottiglie di prosek), essa tocca un nervo scoperto tra i produttori italiani dopo che l’Italia dovette rinunciare al marchio Tocai a seguito dell’ingresso dell’Ungheria nell’Unione europea nel 2004. Da parte loro i produttori e i cittadini dalmati sono per lo più increduli di fronte alla richiesta di rinunciare al proprio marchio che considerano parte della tradizione e della cultura locale. Le richieste europee sono viste da molti cittadini come un tentativo surrettizio di privare la Croazia della propria identità e indipendenza acquisita a seguito di una sanguinosa guerra solo negli anni Novanta. Nel complesso, per i cittadini croati cosi` come per i loro vicini dei Paesi dei Balcani occidentali, l’Unione europea non rappresenta più la soluzione ai propri problemi, ma rischia anzi di aggravarli.
Il crescente irrigidimento delle istituzioni europee nei confronti dei cittadini della regione che desiderano entrare nell’Unione ha creato ulteriori motivi di risentimento anti-europeo. Da fine 2009 serbi, montenegrini e macedoni e da fine 2010 bosniaci e albanesi sono esentati dal requisito del visto per entrare nella zona Schengen. Questa esenzione, ottenuta dopo anni di richieste e aspettative deluse, è stata vista come un aprirsi, almeno parziale, delle porte dell’Europa; quindi è stata accolta con grande entusiasmo. Da allora più di 122 mila persone si sono avvantaggiate della liberalizzazione dei visti per entrare nell’area Schengen e chiedere asilo politico, in particolare in Germania, Svezia e Belgio (dove però solo il 3% delle domande sono state accettate). Per arginare questo esodo, visto con preoccupazione dalle cancellerie europee e dalla stessa Commissione, a metà settembre 2013 il Parlamento europeo ha adottato una “clausola di protezione”, che securitizza ulteriormente il controllo dei confini dell’Unione permettendo agli Stati membri e alla Commissione di sospendere il regime d’accesso senza visti nel caso in cui il numero d’ingressi da un determinato Paese sia considerato una minaccia “all’ordine pubblico”. Non sorprende che, di fronte a questa chiusura e in generale alle speranze di cambiamento troppo spesso deluse, i cittadini della regione considerino le istituzioni europee sempre più distanti, aliene, inefficaci e talvolta persino ostili.
Questa visione delle istituzioni europee non dipende solo da particolari o contingenti decisioni ma anche da almeno tre ragioni di fondo che, insieme, contribuiscono all’affermarsi di idee euroscettiche. Primo, la crisi economica e finanziaria che ha colpito duramente l’Unione europea negli ultimi anni ha avuto pesanti ripercussioni negative anche sui Balcani occidentali, danneggiandone gravemente il modello di sviluppo basato in larga misura sugli investimenti dall’estero. Da un punto di vista economico, infatti, questa regione è già in gran parte integrata con l’Unione europea. Quasi i due terzi di tutti gli scambi commerciali della regione sono con l’Ue. Il Montenegro e il Kosovo hanno già adottato l’euro mentre la Bosnia-Herzegovina, pur mantenendo la propria moneta, ha di fatto ceduto la propria politica monetaria a Francoforte. Mentre questa integrazione economica ha contribuito in maniera importante a sostenere una significativa crescita del Pil a partire dalla fine degli anni Novanta, allo stesso tempo essa ha aumentato la vulnerabilità della regione agli shock esterni, incluse le ripercussioni prodotte dalla travagliata vicenda dell’euro. Tra queste ripercussioni spicca la crescita della disoccupazione. In Kosovo e in Bosnia-Herzegovina circa la metà della popolazione è disoccupata, mentre in Macedonia il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 31%. In Serbia, il Paese politicamente ed economicamente strategico della regione, su una forza lavoro di 2 milioni e 800 mila persone, circa 800 mila, o il 27% del totale, sono senza lavoro; inoltre, il salario medio è sceso a 380 euro al mese e il 70% dei giovani rimane a vivere a casa dei propri genitori fino all’età di 35 anni. In Croazia, la disoccupazione ha raggiunto il 21% con punte del 40% per quanto riguarda i giovani tra i 15 e i 24 anni. La diffusa stagnazione economica e la mancanza di lavoro minano alla radice il sostegno alle politiche riformiste richieste dall’Unione ai Paesi della regione.
Secondo, le difficoltà che stanno attraversando i Paesi della regione che sono già parte dell’Ue rappresentano un preoccupante campanello d’allarme per gli aspiranti membri. Innanzitutto, gli effetti devastanti della crisi economica e finanziaria sulla Grecia hanno approfondito lo scetticismo nei confronti dell’Unione. Fino a pochi anni fa, infatti, questo Paese era ritenuto dai vicini un modello da imitare, avendo compiuto importanti e apparentemente irreversibili passi da una condizione di relativa arretratezza e sottosviluppo alla prosperità e stabilità seguite all’ingresso nell’Unione europea. Oggi, invece, l’esperienza della Grecia suscita perplessità e dubbi rispetto ai presunti vantaggi che il processo di avvicinamento e integrazione nelle istituzioni continentali dovrebbe portare. I cittadini dei Balcani occidentali riconoscono le responsabilità della classe dirigente greca nel disastro economico, politico e sociale del Paese, ma allo stesso tempo attribuiscono all’Unione europea e alle sue politiche di austerità un ruolo fondamentale nell’aggravarsi della crisi. Il deteriorarsi della situazione anche in alcuni Stati “ex balcanici” da pochi anni membri dell’Ue rappresenta un’ulteriore ragione di scetticismo. Ad esempio, in Bulgaria ormai da alcuni mesi la situazione politica e sociale sta peggiorando visibilmente, con il repertorio di dimostrazioni di massa e suicidi tristemente noto nel contesto greco. In Slovenia, il primo Stato post-Jugoslavo a entrare nell’Unione europea nel 2004, il primo ministro è stato costretto alle dimissioni e condannato a due anni di carcere per corruzione mentre, per la prima volta dall’indipendenza ottenuta nel 1991, i cittadini nel corso del 2013 hanno organizzato grandi manifestazioni di protesta nei confronti delle politiche economiche e sociali, spesso percepite come “imposte” dalle istituzioni europee. Nel complesso, la difficile situazione dei Paesi della regione che sono già parte dell’Unione europea viene seguita con attenzione, e con crescente preoccupazione, dagli aspiranti membri.
Terzo, le élite politiche e intellettuali lamentano un atteggiamento che essi considerano paternalistico da parte dell’Unione europea. Teoricamente il processo d’integrazione dovrebbe coinvolgere i funzionari delle istituzioni europee e i rappresentanti democraticamente eletti dei Paesi aspiranti membri su un piano di formale parità; in pratica le decisioni cruciali sul dove, come e soprattutto quando dell’allargamento vengono assunte, e secondo alcuni imposte, da Bruxelles. La vaghezza dei criteri sulla base dei quali i funzionari dell’Unione fondano le proprie decisioni complica il rapporto tra le due parti. Per esempio, i criteri della stabilità politica delle istituzioni, della governance democratica e della rule of law sono inevitabilmente soggetti a molteplici, e forse arbitrarie, interpretazioni. Più in generale, la richiesta proveniente dai funzionari europei che gli aspiranti membri rispettino valori e principi che sono in grave crisi all’interno dell’Unione stessa viene percepita come un atteggiamento quantomeno paradossale, se non offensivo. Infatti, i Paesi membri dell’Ue sono sempre più erosi dall’interno dalla crescita di partiti euroscettici di estrema destra, dal ritorno di politiche nazionaliste e dalla difficoltà, talvolta sfociata nel rifiuto, di sostenere politiche tolleranti e multiculturali. Questa evoluzione, o per meglio dire involuzione, complica anche il processo di transizione negli Stati dei Balcani occidentali, i quali dovrebbero adottare ulteriori, politicamente costose riforme nel nome di valori fortemente in crisi nella stessa Europa occidentale. Non sorprende, quindi, che le élite politiche locali, non diversamente da parte delle élite di molti Paesi già membri dell’Ue, inclusa l’Italia, vedano con crescente diffidenza le richieste provenienti da Bruxelles, in alcuni casi arrivando anche a scaricare la responsabilità delle difficoltà economiche e della mancanza di prospettive per i propri cittadini sulle spalle dei tecnocrati europei.
Questi motivi di scetticismo nei confronti dell’Europa e delle sue istituzioni si sovrappongono a una più ampia e radicata diffidenza nei confronti dell’Occidente cristiano-cattolico. Mentre i musulmani che vivono nei Balcani, e soprattutto quelli di Bosnia, sono frequentemente europeisti, lo stesso non si può dire per i cittadini di religione cristiano-ortodossa, in maggioranza serbi, la cui diffidenza e talvolta ostilità nei confronti dell’Occidente ha profonde radici storiche. Dal periodo tardo-bizantino in avanti, l’Occidente prima e l’Europa poi sono stati visti come l’origine dei principali pericoli per la cristianità ortodossa, portando addirittura molti ortodossi a preferire il dominio ottomano di Bisanzio alla subordinazione a Roma. In tempi assai più recenti, la politica europea nei confronti della regione non ha fatto altro che rafforzare agli occhi dei nazionalisti ortodossi una radicata sfiducia. Infatti, i membri europei della Nato hanno partecipato attivamente al bombardamento della Serbia nel 1999 a difesa della popolazione albanese del Kosovo. In seguito, l’Unione ha posto come condizione indispensabile al riconoscimento della Serbia come Paese candidato alla membership la piena collaborazione con il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aia – istituzione che ha processato e condannato numerosi serbi protagonisti delle molteplici guerre degli anni Novanta. Per molti serbi oggi come ieri le minacce più gravi alla propria sopravvivenza e identità vengono dall’Europa. Nella misura in cui i cittadini serbi accettano il processo d’integrazione europeo lo fanno per un senso di rassegnato realismo legato alla mancanza di alternative. Mentre la crisi finanziaria globale e la vulnerabilità dell’euro hanno contribuito ad approfondire il gap tra l’Europa e la sua appendice sud-orientale, esse hanno anche prodotto un effetto indiretto positivo. Secondo Hido Biscevic, segretario generale del Consiglio di cooperazione regionale (già Patto di stabilità), la crisi ha accelerato la collaborazione pratica a tutti i livelli tra i deboli Paesi dei Balcani occidentali, che ormai funzionano in gran parte come uno spazio economico unico. Paradossalmente, mentre i tentativi ufficiali di riconciliazione tra gli Stati sorti dalla dissoluzione della Federazione jugoslava hanno raggiunto modesti risultati, la crisi, che neppure i Paesi occidentali più ricchi e influenti possono affrontare e superare autonomamente, ha contribuito a favorire il superamento di diffidenza e stereotipi. Mentre l’Unione europea ha per anni tentato, con scarsi risultati, di favorire lo sviluppo di legami economici, politici e culturali tra i Paesi della regione, una crescente cooperazione sta procedendo dal basso con sorprendente e inaspettato dinamismo.
A fronte di questi positivi sviluppi, l’immagine e l’appeal dell’Unione europea, come ricordato, sono stati severamente danneggiati negli ultimi anni. Le conseguenze di medio e lungo periodo del crescente euroscetticismo della regione sono difficilmente prevedibili, anche se è certo che difficilmente il processo di euro-integrazione potrà procedere e avere successo senza il sostegno, o quanto meno la passiva accettazione, dei cittadini e delle società coinvolte. Il rilancio della prospettiva europea, tuttavia, è complicato dalla mancanza di entusiasmo anche tra i Paesi membri dell’Unione, che non considerano certo un ulteriore allargamento una delle loro priorità in un periodo di severa crisi economica e finanziaria. Allo stesso tempo, l’impegno europeo nella regione rimane imprescindibile. Anche se talvolta questo impegno viene motivato come un “ritorno all’Europa”, come nel caso del recente ingresso della Croazia nell’Unione, esistono motivazioni meno emotive. Molto più semplicemente, l’Europa non può permettersi di fallire nella regione perché un eventuale fallimento sarebbe devastante per la credibilità dell’Unione, già spesso messa in discussione, sulla scena internazionale.
Published 21 May 2014
Original in Italian
First published by Il Mulino 6/2013 (Italian version); La Revue Nouvelle 6/2014 (French version, forthcoming)
Contributed by Il Mulino © Roberto Belloni / Il Mulino / Eurozine
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