Writing a trade book about the ‘anti-gender ideology movement’, feminist scholar Judith Butler takes on anti-intellectualism in form and content. Fear of gender diversity is confessional, they write: declaring cisgender rights under threat revokes those of all others. In contrast, gender studies opens up potential for the material and the social to be seen as one.
Alla luce dell’esperienza politica e istituzionale che il nostro Paese sta oggi attraversando, ci sono ragioni per ripensare e ridefinire il ruolo, le funzioni, i poteri del presidente della Repubblica? La domanda è proiettata sul futuro, ma per dare una risposta mi sembra essenziale partire, dopo oltre vent’anni di una transizione incompiuta e dopo il terremoto elettorale delle ultime votazioni, da una valutazione critica del passato.
L’Italia, nell’arco della sua storia repubblicana, ha avuto, oltre a un capo provvisorio dello Stato, dieci presidenti della Repubblica. Benché tra queste presidenze non siano mancate alcune somiglianze, ciascun presidente ha per lo più dato un’interpretazione personale e diversa del proprio mandato. Così abbiamo avuto presidenti che hanno interpretato il ruolo in funzione prevalentemente notarile, ponendosi come garanti esterni e neutrali per il buon funzionamento della macchina di governo (e questi sono stati in particolare i titolari dei primi settennati), e presidenti che, al contrario, hanno impresso alla loro funzione di garanzia una curvatura politicamente attiva, o, se vogliamo, “governante”. Le figure presidenziali del primo tipo hanno orientato la loro azione su un uso molto discreto e contenuto dei propri poteri formali, facendo attenzione a non incidere nella sfera dell’indirizzo politico affidato alla maggioranza e ai suoi organi espressivi. I presidenti del secondo tipo hanno, invece, fondato il loro attivismo essenzialmente sulla loro posizione di rappresentanza, ai sensi dell’articolo 87 della Costituzione, dell'”unità nazionale” intesa come base per consentire all’organo di operare non solo a presidio del buon funzionamento della forma di governo, ma anche come anello di congiunzione tra società civile e apparati governanti o come vero e proprio contropotere nei confronti del governo e della maggioranza.
Ma come si è realizzata nel tempo questa divaricazione nell’interpretazione del ruolo presidenziale? Nel nostro sistema costituzionale la figura del capo dello Stato scaturisce da tre elementi. Il primo è dato dal modello costituzionale, cioè dal complesso dei poteri che la Costituzione affida al capo dello Stato. Il secondo è dato dal variare delle dinamiche connesse al funzionamento della forma di governo, cioè dagli equilibri determinati dallo sviluppo dei rapporti tra corpo elettorale, Parlamento, governo, enti locali e altri soggetti del tessuto istituzionale. Infine c’è un terzo elemento che, riferendosi a un organo monocratico, è espresso dalla personalità del soggetto che è chiamato a ricoprire la carica.
Nella nostra storia repubblicana questi tre elementi non hanno mai rappresentato una costante, ma hanno variato continuamente nel tempo in relazione alle diverse vicende della vita politica. Queste variazioni hanno peraltro operato positivamente, poiché hanno consentito di volta in volta di assorbire le scosse più pesanti che il nostro sistema politico ha dovuto subire, e questo ha determinato un effetto stabilizzante pari a quello che svolgono le mura di un edificio in grado di oscillare quando c’è un terremoto. La variabilità sviluppatasi nell’esercizio della funzione presidenziale ha trovato, d’altro canto, il suo fondamento nell’elasticità del modello di forma di governo adottata dalla Costituzione: un’elasticità che fu ben presente e voluta dai costituenti e che assunse caratteristiche molto peculiari proprio con riferimento alla figura del capo dello Stato. Quando, nel settembre del 1946, la Commissione dei 75, dopo l’approvazione dell’odg Perassi, individuò nel governo parlamentare la forma più rispondente alle caratteristiche del nostro sistema politico (e questo in base a una prima analisi che aveva fatto Mortati e che fu per molti aspetti decisiva), la scelta fu motivata come la più funzionale per un sistema politico quale quello italiano, caratterizzato da fortissime divisioni e contrapposizioni. Ma la ricerca ossessiva di garanzie contro i rischi che la situazione allora comportava non impediva, d’altro canto, di valutare l’opportunità di introdurre nel modello classico del governo parlamentare anche alcuni correttivi diretti a stabilizzare l’esecutivo e a evitare – come allora si disse – i rischi connessi alle “degenerazioni del parlamentarismo”.
I correttivi del modello parlamentare classico maturarono sostanzialmente su due piani: quello dell’adozione di una Costituzione rigida presidiata da un organo di garanzia costituzionale e destinata a operare come limite alla maggioranza parlamentare; e quello della presenza di un presidente della Repubblica dotato di una gamma molto vasta di competenze, che dovevano collocare l’organo fuori dai poteri tradizionali dello Stato, ma pur sempre nel punto di incrocio tra tali poteri, così da dare la possibilità allo stesso organo di influire, a seconda delle contingenze, su ciascuno di essi. Questa scelta consentiva a Meuccio Ruini, quando presentava alla Costituente il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75, di qualificare il presidente della Repubblica in quanto “rappresentante dell’unità nazionale”, come “il grande consigliere, il magistrato di persuasione e d’influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale più ancora che temporale della Repubblica”. Le espressioni erano enfatiche, ma il senso dell’operazione risultava chiaro quando Ruini aggiungeva che, per conseguire questi obiettivi, la figura del capo dello Stato doveva avere “consistenza e solidità nel sistema costituzionale”.
E così, passo dopo passo, si finì per definire un organo che nel quadro delle democrazie europee – se facciamo eccezione per la Francia della Quinta Repubblica – si presenta oggi come quello dotato dei maggiori poteri e delle maggiori prerogative. Con questo modello nasceva, dunque, una forma del tutto inedita di governo parlamentare corretto in senso presidenzialista: una forma articolata al centro attraverso una rete molto fitta di rapporti che venivano a unire il capo dello Stato al Parlamento, al governo, alla magistratura e ai vari apparati pubblici e che, per la sua novità, spingeva un giurista come Livio Paladin a qualificare già molti anni fa la figura del capo dello Stato come “la più enigmatica e sfuggente tra le cariche pubbliche tracciate dalla Costituzione”. È stata questa forma di governo che, proprio in ragione della sua elasticità, ha consentito nel tempo ai vari presidenti della Repubblica di esercitare i propri poteri – secondo l’espressione efficace di Giuliano Amato – “a fisarmonica”, cioè variando l’estensione di questi poteri a seconda delle condizioni in cui viene a versare il sistema politico, riducendo lo spazio dell’azione presidenziale quando il sistema politico offre la possibilità di maggioranze coese e di partiti funzionanti e allargando tale spazio quando il sistema politico entra in crisi per la presenza di maggioranze instabili o di partiti malfunzionanti.
Così, per gradi, si è affermata nella prassi quella figura di presidente della Repubblica che, in talune circostanze, ha finito per operare come “motore di riserva” per riattivare il funzionamento di un sistema politico bloccato, ovvero – per usare una definizione di Carlo Esposito – come “supremo reggitore dello Stato nei momenti di crisi”. Definizioni, a mio avviso, perfettamente compatibili con quel modello di forma di governo che la Costituente aveva inteso adottare. Se così stanno le cose, tutte le vicende politiche che il nostro Paese ha attraversato dopo la fine degli anni Ottanta non potevano non condurre, come hanno condotto a seguito della crescente destrutturazione del sistema politico, all’espansione dei poteri presidenziali, cioè all’affermazione sempre più diffusa nella prassi di un’interpretazione “attiva” o “governante” della funzione presidenziale. Questo è accaduto in particolar modo – dopo le prime avvisaglie emerse attraverso l’uso del potere di esternazione da parte di Pertini – con le presidenze di Scalfaro, di Ciampi e di Napolitano: presidenze che, pur caratterizzate da stili diversi di conduzione della carica, si sono in definitiva tutte orientate verso una visione “attiva” e non notarile del ruolo presidenziale.
In questa vicenda – che sia gli storici sia i costituzionalisti hanno da tempo iniziato ad analizzare – assume un rilievo molto particolare l’ultimo settennato, che ha impresso una netta accelerazione agli sviluppi della prassi.
Il fatto è che con questa presidenza – che si è pur sempre richiamata al rispetto rigoroso dei confini formali tracciati dalla Costituzione – la “fisarmonica” ha finito per raggiungere la sua massima espansione in misura proporzionale all’aggravarsi delle condizioni di disfunzione del sistema politico. La fine dei partiti di massa, il fallimento del bipolarismo, la crescente frammentazione degli schieramenti, la contrapposizione sempre più accentuata tra corpo sociale e apparati governanti hanno concorso a rafforzare, nel corso degli ultimi anni, la centralità del ruolo del presidente della Repubblica, non solo come supremo garante della Costituzione, affiancato in questa funzione alla Corte costituzionale, ma anche come organo di mediazione, moderazione, stimolo, cioè, in sostanza, come organo di indirizzo costituzionale in quanto rappresentante dell’unità nazionale.
Un ruolo che la Corte costituzionale ha da ultimo colto molto bene nella sua prima sentenza del 2013 – dove si è deciso il conflitto sorto sulle intercettazioni telefoniche di Palermo – quando ha riferito al capo dello Stato la qualifica di “garante dell’equilibrio costituzionale” in ragione di competenze in grado di incidere su ciascuno dei poteri dello Stato, allo scopo di salvaguardare a un tempo sia la loro separazione sia il loro coordinamento.
Ora, questa accresciuta centralità del ruolo presidenziale si è realizzata nel corso della presidenza Napolitano non tanto attraverso l’esercizio di poteri formali – è stato rilevato che Napolitano ha inviato un solo messaggio formale di rinvio di una legge alle Camere – quanto piuttosto esercitando una incisiva influenza su tutti i circuiti di formazione delle decisioni politiche: influenza che si è sviluppata attraverso una azione costante di moral suasion, nonché attraverso l’arricchimento del potere di esternazione, che Napolitano ha esercitato per lo più con forti e dettagliate motivazioni nei confronti di tutti gli attori del sistema politico.
Lo sviluppo di un potere di esternazione ben motivato ha reso, d’altro canto, più trasparente la funzione presidenziale e questo ha aumentato verso la figura del presidente il tasso di consenso di un’opinione pubblica sempre più critica verso il funzionamento dei partiti e, di conseguenza, portata a individuare nel capo dello Stato uno dei pochi elementi di stabilità e continuità del sistema.
Il rilievo di questa funzione unificante esercitata dall’attuale presidente della Repubblica si è manifestato – ed è stato colto dall’opinione pubblica – specialmente in due recenti occasioni celebrative legate, la prima, ai sessant’anni della carta costituzionale e, la seconda, ai centocinquant’anni dell’unità nazionale. In queste occasioni Napolitano ha avuto l’opportunità di illustrare al Paese e alle forze politiche la sua “pedagogia costituzionale”, che si è collegata a quella già in precedenza esercitata da Ciampi; “pedagogia” fondata su una prospettiva storica di lunga durata e diretta a connettere in sequenza naturale Risorgimento, Resistenza, Costituzione ed Europa.
Tutto questo ha contribuito a rafforzare il consenso dell’opinione pubblica verso il presidente e ha, di conseguenza, consentito a Napolitano di affrontare in piena autonomia il passaggio forse più delicato del suo primo settennato, quando, nell’autunno del 2011, di fronte al precipitare della crisi economica e sotto la pressione delle istituzioni europee, ha potuto imporre ai partiti un “governo del presidente”, evitando lo scioglimento delle Camere, che molti invocavano, e garantendo allo stesso governo la nascita di una larghissima quanto “strana maggioranza”.
Sempre alla luce di questo ruolo politicamente “attivo” che il presidente ha potuto esercitare, in ragione del crescente consenso acquisito presso l’opinione pubblica in una situazione di disgregazione del sistema dei partiti, si spiegano anche le più recenti vicende che hanno seguito le elezioni dello scorso febbraio, con il pre-incarico condizionato al segretario del partito di maggioranza relativa e, dopo il fallimento di questo tentativo, con la formazione di una commissione di “facilitatori” o di “saggi” per la definizione di un programma in grado di favorire un’intesa allargata tra le forze in campo. Un percorso che, dopo i tentativi falliti di elezione di un nuovo presidente, ha condotto anche alla rielezione dello stesso Napolitano in quanto riconosciuto insostituibile nella sua funzione di “supremo garante” di un sistema in crisi. Tutti passaggi inediti per la storia costituzionale italiana, ma tutti passaggi strettamente consequenziali al ruolo acquisito dal presidente della Repubblica nel quadro complessivo degli equilibri costituzionali.
Queste vicende hanno fatto emergere alcune domande che investono il futuro. Gli sviluppi più recenti della nostra vita politica e istituzionale hanno di fatto già superato i confini naturali della forma di governo tracciata in Costituzione? L’evoluzione che da ultimo si è avuta nell’esercizio dei poteri presidenziali mette in gioco la necessità di un adeguamento del nostro modello di forma di governo? È il modello che va adeguato alla prassi o è la prassi che deve ritornare nei confini del modello? E se la prassi dovesse prevalere sul modello, in che direzione dovrebbe essere orientata un’eventuale riforma della figura presidenziale?
Qualunque siano le risposte possibili a queste domande, occorre partire da una premessa di contesto: la stagione che stiamo attraversando non è normale e ci impone la presenza di prassi costituzionali nuove, perché del tutto nuovi sono gli eventi che stiamo vivendo. Si è parlato molto, in questi mesi, di tenuta o rottura del nostro modello di governo parlamentare, ma esiste oggi indubbiamente un problema più profondo che riguarda la tenuta o la rottura del modello di democrazia che abbiamo sinora utilizzato. Se muoviamo da questa premessa, possiamo tentare una prima risposta alle domande che ora si ponevano.
Il presidente Napolitano ha senza dubbio usato estensivamente i poteri di cui disponeva e spesso ha sfiorato nel suo settennato i confini del modello parlamentare. Ma tutto questo è avvenuto, come si diceva, su una linea di sviluppo che si lega al processo di dissoluzione del sistema dei partiti che ha caratterizzato la vita pubblica italiana degli ultimi vent’anni. Di conseguenza, possiamo dire che – pur in condizioni di forte sofferenza del sistema politico – il modello di governo parlamentare di cui disponiamo ha retto ancora una volta bene la prova cui è stato sottoposto, in ragione di quella innata elasticità che ha consentito a Napolitano di operare nei termini in cui ha operato.
D’altro canto, bisogna anche tener presente che se la prassi estende i poteri di un organo questo mette in gioco un problema di legittimazione, di forza e di responsabilità dell’organo stesso. Ora, se la legittimazione del capo dello Stato deriva formalmente dalla sua elezione parlamentare a maggioranza qualificata, l’elezione rappresenta soltanto l’innesco del potere, non la condizione di forza necessaria per il suo esercizio nelle diverse contingenze.
Questa condizione di forza il capo dello Stato nel nostro impianto costituzionale può trarla essenzialmente dal sostegno di un’opinione pubblica disposta a riconoscere all’organo un ruolo di garanzia super partes in difesa delle libertà fondamentali e della funzionalità della democrazia. E questo ruolo, come si diceva, può trovare il suo fondamento proprio nel richiamo che lega la funzione presidenziale all’unità nazionale.
Tale richiamo offre infatti al capo dello Stato la disponibilità di una forza moderatrice che in un sistema politico come quello italiano – caratterizzato ancor oggi, come in passato, da un elevato grado di disomogeneità – può assumere una valenza molto significativa se è vero che, in presenza di un tessuto socialmente, economicamente e politicamente diviso come il nostro, l’esistenza di un organo in grado di esercitare con ragionevolezza una funzione moderatrice nello scontro radicale tra le forze in campo finisce per essere avvertita dall’opinione pubblica come il primo e necessario punto di ancoraggio del sistema.
Se questo è il quadro, a quali riforme di rango costituzionale è giusto oggi pensare per la figura presidenziale?
Il punto di partenza è che questa Costituzione, nell’arco dei sessantacinque anni che abbiamo alle spalle, ha nel complesso funzionato bene: ha tenuto unito il Paese, ha fatto sopravvivere la democrazia, ha aumentato lo spazio per i diritti di libertà. Cos’è, invece, che, in questo quadro, non ha funzionato e non sta funzionando? Non ha funzionato e non sta funzionando – proprio per la crisi che ha colpito il sistema dei partiti – la connessione attraverso cui si esprime l’indirizzo politico di maggioranza, cioè la connessione tra corpo elettorale, Parlamento e governo, connessione che si riflette, alla fine, sul funzionamento dell’intero impianto amministrativo. Di contro hanno, invece, funzionato bene le garanzie connesse alla presenza del capo dello Stato, della Corte costituzionale e della magistratura. Mentre gli organi neutrali di garanzia hanno funzionato, gli organi di indirizzo sono andati in sofferenza perché il tessuto politico sottostante si è progressivamente frantumato e quel sistema di partiti che poteva operare efficacemente negli anni Cinquanta non è stato più in grado di rispondere alle domande poste dalla società nei decenni più recenti.
Allora, se questo è il quadro, le riforme sono sì necessarie e anche urgenti, ma per affrontare il tema delle riforme costituzionali bisogna innanzitutto pensare a riforme strettamente funzionali e connesse con le riforme della politica. E questo induce a pensare che, ai fini di un recupero del corretto funzionamento della vita politica del nostro Paese, le prime riforme necessarie non riguardino tanto la presidenza della Repubblica o la forma del governo parlamentare, quanto la legislazione elettorale e l’impianto bicamerale.
Published 17 July 2013
Original in Italian
First published by Il Mulino 3/2013 (Italian version)
Contributed by Il Mulino © Enzo Cheli / Il Mulino / Eurozine
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