Ecco il mondo delle reti

Intervista a Manuel Castells di Giancarlo Bosetti

Manuel Castells risponde alle domande riguardanti la sua opera L’età dell’informazione: economia, società, cultura. L’autore parla inoltre del ruolo peculiare della criminalità nella società, della identità europea a suo parere inesistente e di poesia.

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Un’opera dalle dimensioni imponenti, L’età dell’informazione: economia, società, cultura è la trilogia con cui Manuel Castells prova araccontarci il mondo della nostra epoca, dove ogni aspetto della nostra vita, dalla cultura alla politica, dal lavoro fino alla criminalità, assume la forma del network

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Sono le relazioni sociali a guidare le tecnologie, che non sono neutrali. Internet era già operativo nel 1969, poi è esploso nella società, nelle comunicazioni, nel mondo degli affari, e ciò è avvenuto quando la società e l’economia sono diventate sempre più organizzate in reti di attività

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Una rete è flessibile, adattabile. È pura morfologia, niente ideologia, niente valori, può uccidere o baciare, dipende dal suo programma. Una comunità, invece, si basa su valori e sulla relativa stabilità delle sue componenti. E si definisce mediante i suoi confini. Le reti sono prive di confini

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L’era informatica non determina la fine dello stato sociale. In effetti, si potrebbe sostenere che la fonte della produttività e dell’innovazione è oggi una forza lavoro molto colta, informata ed autonoma, la quale dipende dall’esistenza di uno stato sociale forte nell’istruzione, salute e sviluppo culturale

Professor Castells, la sua opera è colossale. L’età dell’informazione: economia, società, cultura consiste di tre volumi: 1) L’ascesa della network society, 2) Il potere dell’identità, 3) Fine di millennio. È il risultato di un’ambizione di completezza. Comincerei proprio con il chiederle: perché? Non è in contrasto con l’epoca in cui siamo. Non ha scritto lei stesso: basta con i mâitresà penser, basta con gli eruditi che hanno la pretesa di esserlo, basta con gli schemi ideologici e le grandi teorie? Basta con tutte queste cose, eppure il suo lavoro non è in fin dei conti il tentativo di una nuova interpretazione del mondo?

Cerchiamo di essere chiari. Il mio lavoro si basa sui principi della ricerca erudita, accademica. Ma il concetto di mâitres à penser fa riferimento ad intellettuali che, sulla base delle loro conoscenze, dicono agli altri in che modo essi debbano pensare e come si debbano comportare. Questo non è certo il mio caso, e se per caso esiste una qualche ambiguità, essa è dovuta ad un mio errore di comunicazione. Nel mio caso, io svolgo un tipo di ricerca basata sull’osservazione, e naturalmente mi servo anche della teoria, per proporre un’interpretazione sistematica della società della comunicazione e delle sue contraddizioni, sostenendo che questo è il fondamento della nostra organizzazione e della nostra pratica sociale. Ma da questa analisi non traggo alcuna conseguenza di natura sociale, personale o politica. Sta poi a ciascuno darle un senso per la propria prassi di vita. Di sicuro io non pretendo di possedere l’analisi corretta di ogni argomento che ho studiato, ma qualsiasi dibattito o discussione dovrebbe seguire lo stesso procedimento scientifico. Io ho cercato di utilizzare l’osservazione empirica, la teorizzazione, e il rigore logico.

Niente ideologia allora?

Quel che propongo non è ideologia, bensì un’analisi sociale scientifica delle nostre società; anzi, in verità cerco di tenere l’ideologia il più lontano possibile dalle mie conclusioni. Naturalmente, a volte sbaglio, ma questi errori devono essere corretti e rettificati in termine di rigore scientifico, in un dibattito aperto ed incessante sull’analisi della nostra società. Parlando francamente, sono molto critico nei confronti di intellettuali à la Bourdieu, i quali, solo perché sanno qualcosa di un certo argomento, si sentono autorizzati a guidare la società in ogni possibile campo, mediante i loro valori, che presuppongono superiori dal punto di vista intellettuale ed etico, e ciò a dispetto del fatto che, sulla maggior parte degli argomenti, essi non hanno maggiori conoscenze della gente comune. Cerchiamo di essere modesti, e di fare il nostro lavoro seriamente, e lasciamo che sia la gente a decidere della propria vita, usando qualsiasi materiale che abbia a disposizione, incluso il lavoro che produciamo noi come ricercatori e studiosi.

Nello sviluppo del suo progetto, ho trovato centrale il capitolo sulla “virtualità reale” (vol.I, pp.355-406 nell’edizione americana), quello che descrive la traiettoria storica del passaggio dalla mentalità alfabetica a quella tipografica (secondo la definizione di Neil Postman che chiama così l’epoca della diffusione del libro e dell’ascesa della democrazia), e poi da quella tipografica a quella delle audience di massa della tv generalista, e infine da qui alle reti interattive. Le tecnologie, allora, secondo lei guidano le relazioni sociali?

No, per niente. Sono le relazioni sociali a guidare le tecnologie. Ma le tecnologie non sono neutrali. Proprio per il fatto di esistere, esse rendono possibili ed ampliano certe forme di relazione sociale. Parlando concretamente: Internet era già operativo nel 1969, e per 25 anni è stato usato nelle università, nelle istituzioni di ricerca e nelle libere comunità virtuali; poi è esploso nella società, nelle comunicazioni, nel mondo degli affari, e ciò è avvenuto quando la società e l’economia sono diventate sempre più organizzate in reti di attività, per ragioni specifiche che spiego nel mio libro. Ed è proprio perché stavano nascendo le reti, che l’applicazione del server “www.”, sviluppata nel 1990/91 da Berners-Lee e Caillau, ha facilitato la trasformazione di Internet in un mezzo globale di comunicazione per centinaia di milioni di persone. Dunque, le reti e l’interattività vengono prima, poi la tecnologia di Internet è stata adattata dalla società, e proprio in virtù di questo adattamento ora le reti e l’interattività si estendono a tutti i campi di attività e all’intero pianeta, benché in maniera molto selettiva.

È sicuro del declino, lei dice addirittura “alla fine” dell’audience di massa e, con essa, della TV commerciale generalista gratuita? Lei sa che noi, in Italia, siamo un paese moderno, ma di fatto governato da un uomo che ha costruito la sua ricchezza, il suo consenso ed il suo potere politico su questo terreno ormai fuori moda, proprio quel genere di televisione, che lei dice in declino, se non già finito.

L’audience di massa è già finita. Persino le reti televisive gratuite sono ormai solite rivolgersi a tipi differenziati di pubblico. L’audience è segmentata perché essa si riferisce ad un vasto sistema multimediale, che comprende cavo e satellite, TV, molte radio, e Internet, più una quantità sempre più diversificata di mezzi a stampa (sempre più specializzati) e, molto presto, le comunicazioni Internet Wap (Wireless Application Protocol) su larga scala, specialmente tra i giovani. Tutto ciò non è in contraddizione con la crescente concentrazione dei multimedia in pochi gruppi oligopolisti che sono globalmente interconnessi, e con una consistente influenza politica. I gruppi mediatici usano una grande diversità di mezzi di comunicazione, trovando così economie di scala e di scopi al tempo stesso, ma essi confezionano anche mezzi specifici per gruppi e audience speciali. C’è il consolidamento aziendale, e la flessibilità e la diversità di tecnologie della comunicazione, con linguaggi specifici per i messaggi specifici confezionati per specifiche fasce di audience.

E la moderna Italia, dove la mettiamo?

E no, l’Italia non è un paese moderno, è uno degli ultimi paesi avanzati dove le vecchie teorie marxiste dell’integrazione di oligarchie affaristiche, potere mediatico e potere politico ancora aiutano a capire le dinamiche dello Stato.

Il concetto di rete. Potrebbe spiegare come lo usa e quali sono le differenze tra rete e comunità?

Una rete è una serie di nodi interconnessi. È una struttura senza centro, basata sull’interattività, sull’autonomia di ciascun nodo, e sulla variabilità di scala. Una rete può crescere o restringersi, mediante la riconfigurazione, fintantoché essa resta focalizzata sulla realizzazione del compito per la quale è stata programmata da attori sociali. Una rete è flessibile, adattabile, e può sopravvivere ed espandersi finché le si forniscono energia e risorse; è una struttura sociale decentrata. Ed è pura morfologia, niente ideologia, niente valori, una rete può uccidere o baciare, dipende dal suo programma. Una comunità, invece, si basa su valori e sulla relativa stabilità delle sue componenti. Una comunità si definisce mediante i suoi confini. Le reti invece sono prive di confini.

Nella sua trilogia c’è anche una storia del tempo in rapporto alle tecnologie e all’organizzazione sociale. Il punto di arrivo di questa corsa storica è il timeless time, il tempo senza tempo? Ci vuol dire che cosa è?

Chi vuol saperlo fino in fondo deve leggersi il capitolo 7 del primo volume. Ma se vuole risparmiarsi la fatica, ecco una sintetica definizione: è l’esperienza temporale che risulta dalla tendenza strutturale a comprimere il tempo cronologico, o a rendere confusa la sua sequenza. Come nei mercati finanziari globali, o nell’alterazione di un modello prevedibile di carriera nella vita professionale.

Che cosa intende per capitalismo informazionale? Quando parla del capitalismo, evoca nuove forme di conflitto basate sulle relazioni economiche?

Il capitalismo è il capitalismo, così come è stato definito e studiato da Adam Smith, Ricardo, Marx e Keynes. Informazionale si riferisce al paradigma tecnologico sulla base del quale esso opera. Il capitalismo industriale era basato sulla creazione, la lavorazione e la distribuzione di energia sulla base prima della potenza generata da vapore e poi dall’elettricità. Il capitalismo informazionale è il capitalismo che opera su scala globale usando tecnologie informatiche di comunicazione basate sulla microelettronica, e, sempre di più, sull’ingegneria genetica, come tecnologia capace di riprogrammare i codici informatici di tutte le forme di vita.

Cosa c’è di veramente nuovo nell’impresa a rete?

Il fatto che l’unità economica operativa non è più l’azienda, ma il progetto economico attorno al quale la rete si forma tra imprese e segmenti di imprese ed i loro subappaltatori. Dunque, la capacità di connettere la rete interna (intra-network) di una struttura decentralizzata di impresa, con le reti esterne (extra-networks) dei fornitori e dei clienti, lavorando tutti e sempre in un’interazione in tempo reale, come un’unità su una scala globale, sulla base delle nuove tecnologie, ed approfittando della deregulation e della liberalizzazione globale.

Nella nostra epoca, nell’epoca che sta descrivendo, c’è una tendenza strutturale ad aumentare le disuguaglianze, a polarizzare la società, a sottolineare la divisione (il suo ultimo libro, The Internet Galaxy, ha un capitolo intitolato “The Digital Divide”) tra la gente con abilità di alto livello e la gente con capacità generiche, facili da sostituire con macchine o con altre persone, una tendenza a distruggere la solidarietà, a smantellare lo stato sociale; in sintesi, tutte quelle cose che erano terreno della socialdemocrazia, del riformismo liberale, dei governi di centrosinistra. Secondo lei, qual è oggi lo spazio di questi progetti politici? E per la politica in sé e per sé?

L’era informatica non determina la fine dello stato sociale. In effetti, si potrebbe sostenere che la fonte della produttività e dell’innovazione è oggi una forza lavoro molto colta, informata ed autonoma, la quale dipende dall’esistenza di uno stato sociale forte nei campi dell’istruzione, della salute e dello sviluppo culturale. Prenda la Finlandia, il numero uno dell’informatica nel mondo, nonché l’economia più competitiva in assoluto, secondo la graduatoria del World Economic Forum. Essa è basata su uno stato sociale molto forte ed onnicomprensivo (ho appena terminato un libro su questo argomento, con il mio collega Pekka Himanen). Dunque, il modo in cui le società gestiscono la transizione verso la società delle reti e verso un’economia della conoscenza dipende dai progetti politici, dagli interessi sociali, e dalle decisioni politiche. La politica è più importante che mai, ma quel che osserviamo è che, in generale, la politica è dominata dall’immagine, e dagli scandali, come arma nella lotta politica.

Che cos’è il Network State?
È il sistema di assunzione delle decisioni a livello politico che risulta dai legami sistematici tra diversi Stati nazionali, tra i diversi livelli dello Stato nazionale (nazionale, regionale, locale), e con istituzioni internazionali e sovranazionali al fine di gestire i processi globali di creazione e distribuzione di ricchezza, informazione e potere. L’Unione Europea è già uno network state, con le sue relazioni sistematiche tra tutti questi livelli dello Stato, entro un sistema di governo e di sovranità condivisi.

Lei ha scritto che, nell’era informatica, le battaglie culturali sono in realtà battaglie per il potere. Che cosa intende? La cultura è forse più importante del denaro? E la proprietà?

Sì, la cultura in termini di valori. Quel che determina che cosa fa la gente, sono i loro valori. Se il mio valore è Dio, questo è molto più importante del denaro, ed io userò il mio denaro per realizzare la parola del mio Dio. Se dò più valore alla protezione della natura che non ai consumi materiali, farò in modo di tenere sotto pressione le aziende e i governi per modificare il modello di crescita economica in questa specifica direzione. Se dò valore alla libertà in Internet, mi accerterò che la commercializzazione in Internet non leda il principio di libertà, e chiamerò tutti gli hackers del mondo a raccolta per difendere la libertà. Se il mio valore è il denaro, allora mi concentrerò sul far soldi, ma oggi per far soldi avrò bisogno di innovatori, alla fonte del valore, sia attraverso la produttività che attraverso la ricompensa dei mercati finanziari per le prospettive dell’innovazione. Nella Silicon Valley c’è un detto: con buone idee, si fanno sempre soldi; se fai soldi senza buone idee, finirai per perderli. Sì, il denaro può comprare un sacco di cose, persino l’amore. Ma non può cambiare le menti che sono state formate su altri valori. Se non credi che il denaro sia la cosa più importante, non lo è, ed esso diventa un mezzo al servizio di un altro valore. Poiché la nostra società è basata su decisioni fondate sull’informazione, il cambiamento delle categorie culturali su cui queste informazioni sono elaborate muta le decisioni ed altera le relazioni di potere.

Lei constata un ruolo peculiare per la criminalità, che si proietta nel futuro: la criminalità di rete, che potrebbe essere in grado di controllare quote sostanziose della nostra economia, delle nostre istituzioni, della nostra vita quotidiana. Lo so che c’è un grande capitolo su questa “connessione perversa”, ma ci dica in sintesi che cosa ci aspetta.

Del futuro, non dico mai nulla. Le reti globali del crimine non sono il futuro, ma il presente. L’economia criminale globale sembra essere in grado di riciclare denaro sporco per una cifra probabilmente maggiore del Pil del Regno Unito. La loro presenza è essenziale nella finanza dei sistemi politici di molti paesi, certamente nella maggior parte dei paesi sviluppati, come il Giappone e l’Italia. E attraverso i loro contatti globali, essi raggiungono qualsiasi società, inclusi certamente anche gli Usa, dove il 50% della popolazione carceraria (la più grande del mondo) è legata al traffico di droga.
Nella storia, non c’è un senso di predeterminazione. Ciò che sappiamo è che il lavoro della polizia e la repressione legale non fermano le droghe, né il traffico di esseri umani, né il contrabbando, né alcuna altra attività illegale. Anzi, avviene il contrario: le reti criminali si infiltrano nella polizia e nei governi molto più velocemente di quanto i governi non distruggano alcune di esse. Pertanto, la lotta contro il crimine deve radicarsi nella struttura e nei valori della nostra società.

Dell’Europa lei ha scritto che non è un progetto storico di costruzione di una società, ma un edificio difensivo della civiltà europea contro il rischio di diventare una colonia americana o asiatica. È ancora questa la sua opinione? A proposito, sto parlando con un europeo (catalano, spagnolo), o con un americano?

Sono catalano e amo la California, la regione più innovativa del mondo. Il progetto europeo mi piace, ma l’identità europea non esiste, secondo le prove a disposizione (come i sondaggi di opinione, ecc.) Meno del 3% dei cittadini dei diversi Stati europei vive in un paese diverso dal proprio, anche se in teoria potrebbero farlo. L’Unione Europa è, nei fatti, il cartello di Bruxelles degli interessi congiunti degli stati membri, che cercano di alzare la posta al massimo nel mercato mondiale del potere. Probabilmente attraverso una prassi condivisa, potrà emergere una specie di società europea, certamente multietnica e multiculturale, e già esiste un network State europeo. Ma non esistono valori culturali comuni. Così, le persone sono catalane, spagnole, ed europee, e cittadini del mondo, ma nel senso vero; sono cittadini del mondo, quando sono dominanti, e lo sono personalmente e insieme alle loro famiglie; quando sono dominati, decidono di appartenere alla più efficace identità di resistenza.

“…compartimos esperanzas e inviernos…” Ci sono i versi di Neruda alla fine della sua lunga fatica, nell’ultima pagina dell’ultimo volume. Perché? Per caso, un po’ di nostalgia per la vecchia sinistra?

Assolutamente no. Non ho fatto mai parte della vecchia sinistra. Ma Neruda è il mio poeta preferito, ed ha espresso così bene quello che volevo dire io… cerco di non reinventare quello che esiste già. Nella mia ricerca e nella mia scrittura uso l’intera gamma della creatività umana, la fonte è aperta, no?

Published 28 October 2002
Original in Italian

Contributed by Reset © Reset eurozine

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