COVID-19: il senso della crisi

Virus, narrazione e politica non necessariamente vanno nella medesima direzione.

Siamo in crisi. Niente potrebbe essere più autoevidente: una pandemia globale ha devastato la specie umana e provocato una crisi. O no? Sembra indiscutibile dire che il COVID-19 è una crisi. Ma che cosa significa questa affermazione

Innanzitutto si tratta di un enunciato su un virus che fornisce una struttura a un fenomeno amorfo. In altre parole, il virus COVID-19 diventa «un evento» nel flusso continuo dei fenomeni attraverso questo enunciato performativo. Al suo livello più elementare, quindi, il termine «crisi» è un dispositivo narrativo. In quanto tale, è un termine che crea una struttura narrativa:1 è un mezzo per definire un evento e delineare un inizio e una fine, cosa che – come stiamo imparando in questo momento – è praticamente impossibile nel caso di una malattia.

Tuttavia dobbiamo ricordare che il termine «crisi» è anche un concetto. E come tutti i concetti, ha una storia. Il concetto di crisi è stato alla base della grammatica medica ippocratica, del linguaggio giuridico aristotelico, della teologia cristiana, dell’economia politica marxista e delle tradizioni europee della storiografia e della teoria critica. Ha migrato tra questi domini discorsivi e ha contribuito all’articolazione delle loro varie pratiche (medicina, storiografia, critica).2

Inoltre, questa particolare storia concettuale ha generato la nostra radicata presunzione che le crisi siano il risultato di tendenze inevitabili, come contraddizioni tra forze opposte (lavoro contro capitale nella teoria marxista) o discrepanze tra realtà concorrenti (il mondo contro la conoscenza umana del mondo per la teoria critica). In effetti, la sua particolare storia concettuale ha reso il termine «crisi» fondativo dei modi con i quali percepiamo gli eventi nella nostra costante apprensione per i fenomeni che sono in competizione («questa è una crisi»).

Ed è il modo principale in cui indichiamo il significato di quegli eventi in quel flusso costante («questa è una crisi e quindi un evento storico»). In breve, il concetto di «crisi» qualifica il nostro mondo: determina ciò che conta come evento; ciò che viene iscritto alla «Storia»; e ciò che viene definito e delineato come un errore, come un allontanamento dal presunto percorso corretto della storia, come un problema normativo.

Ci si potrebbe chiedere: «Come può un virus avere a che fare con delle norme?». Come altro potrebbe essere chiamata una pandemia globale se non «crisi»? Dopo tutto è in gioco la vita umana. In effetti, nominare un insieme di eventi o una situazione come «crisi» suona come un mero atto semantico, o un atto linguistico. E l’affermazione: «Questa cosa è una crisi» sembra semanticamente giustificata rispetto a una pandemia globale che imperversa tra le popolazioni umane.

Tuttavia «questa è una crisi» non è una semplice osservazione empirica che può essere rappresentata senza problemi tramite un atto semantico. Al contrario «questa è una crisi» è un’osservazione logica, è una dichiarazione. Ed è, inoltre, una dichiarazione concettuale. Mi spiego meglio.

Traduzione italiana: a cura della rivista il Regno; pubblicata nella edizione 2/2022.

L’importanza delle definizioni

Abbiamo un’osservazione empirica: un virus. Questa osservazione si basa su una distinzione, tra virus e non virus. È un’osservazione di primo livello. Un virus può essere conosciuto (osservato) solo sulla base di distinzioni che definiscono ciò che non è.

Si può avere un’altra osservazione: virus presente, cioè c’è un virus in mia presenza o un virus non in mia presenza. E questa è un’osservazione di secondo livello basata sull’osservazione di primo livello tra virus e non virus. Partendo da questo, l’affermazione «un virus in mia presenza è una crisi» qualifica un’osservazione ed è concettuale. In altre parole, l’osservazione empirica «virus» è diversa dall’affermazione concettuale «il virus è una crisi».

Il punto è che un virus non è naturalmente una crisi. Dire che lo è – affermare che il virus è una crisi – è un modo di qualificare un’osservazione empirica. Così facendo, portiamo un’osservazione empirica nel regno concettuale. In questo modo, il concetto di crisi costituisce il fondamento per la prassi che inquadra la malattia come un evento intelligibile e storico.

Perché questo è importante? Dopo tutto, un virus in mia presenza non è una buona cosa. È importante riconoscere che la crisi è una dichiarazione perché, come proposizione, è il nostro mezzo primario per qualificare il mondo osservabile, per qualificare una situazione, per qualificare la storia.

Il nostro mondo contemporaneo sembra essere fondamentalmente definito da una situazione di crisi prolungate, ognuna delle quali corrisponde a osservazioni empiriche. Per esempio, abbiamo una crisi sanitaria globale, che corrisponde alle osservazioni empiriche «virus» o «SARS-CoV-2» o «COVID-19». Oppure abbiamo una crisi ambientale, che corrisponde alle osservazioni empiriche «incendi», «inondazioni» o temperature oceaniche più calde. Oppure abbiamo una crisi socio-economica, che corrisponde a rappresentazioni statistiche, come le distribuzioni del reddito e le disuguaglianze nella ricchezza.

Si fanno ricerche su queste crisi per capirle meglio e – si spera – per correggerle. Per esempio, quando si stabilisce che c’è una crisi finanziaria, come nel 2007, studiosi e giornalisti investigativi cercano di descrivere l’impatto della crisi su diverse popolazioni. Poi abbiamo pubblicazioni (per lo più post hoc) in merito all’impatto della crisi finanziaria sulle persone.

Un approccio molto diverso consisterebbe nel porsi prima le domande costitutive sul concetto di crisi. Alcune di queste potrebbero essere: «Che cosa, nello specifico, viene identificato come in crisi? Quando viene dichiarata una crisi, e perché in questo particolare momento piuttosto che in un altro? Crisi per chi? E a motivo di chi?». Infatti, quando la crisi è dichiarata, alcune domande sono abilitate, altre sono precluse.

Pertanto, la domanda decisiva è: «Che cosa c’è in gioco quando si dichiara la crisi? Quali sono gli effetti di questa rivendicazione?». Questa è una domanda importante perché ci costringe a essere espliciti sui presupposti che strutturano e mettono in campo i nostri sforzi per risolvere la crisi, o il nostro modo di problematizzare qualcosa come crisi. Risolverla significa che diamo per scontato che siamo tutti d’accordo su cosa sia esattamente in crisi e per chi. Ciò significa che consideriamo seriamente gli effetti tangibili del concetto stesso sulla formulazione delle affermazioni veritative.

Nel caso del COVID-19, questa è una cosa da prendere in considerazione.

Eppure eravamo preparati

Oggi «crisi» significa pandemia sanitaria globale. Niente potrebbe sembrare più naturale: la crisi fondamentale per gli esseri umani è non avere una risposta immunitaria a un virus. Questa sarebbe letteralmente una crisi esistenziale. Tuttavia, abbiamo una risposta immunitaria al COVID-19, una risposta travolgente che può essere catastrofica ma anche cruciale per i nostri metodi di sviluppo di un vaccino. Quindi, se la pandemia globale non è una crisi esistenziale che minaccia l’esistenza della specie umana, che tipo di crisi è?

La risposta più ovvia è che il COVID-19 è una crisi di sanità pubblica: gli esseri umani non erano preparati a respingere questo intruso biologico, che è insolitamente virulento o insolitamente trasmissibile.

Ma come hanno dimostrato gli antropologi Andrew Lakoff e Stephen Collier, eravamo preparati. Basta guardare la ricerca di Lakoff per capire meglio il consolidamento di quello che lui chiama «assemblaggio della sicurezza sanitaria globale». 

Lakoff traccia l’emergere della nozione stessa di «preparazione» come una strategia governativa degli Stati Uniti che ha coinvolto il consolidamento di forme di conoscenza e pratiche provenienti dai domini più diversi, tra i quali la protezione civile nazionale, la gestione delle emergenze e la salute pubblica internazionale.

Egli traccia anche la formulazione e gli spostamenti di ciò che costituisce una malattia emergente dalla fine degli anni Ottanta, quando la pandemia di HIV-AIDS ha messo fine alla nostra idea che le malattie infettive fossero state contenute dalle misure di sanità pubblica. A quel tempo, le agenzie di biosicurezza conclusero – e non dimenticate che si trattava di quattro decenni fa – che la nostra futura ecologia globale avrebbe comportato l’emergere continuo di nuove malattie per le quali non abbiamo attualmente gli anticorpi.

Alla fine degli anni Novanta, l’iniziativa di bio-difesa degli Stati Uniti, incentrata sull’antrace, si preparava a un eventuale attacco bio-terroristico. Inoltre, come documenta Lakoff in un saggio sulla formazione della «virologia sperimentale» come parte di una strategia di preparazione alle pandemie, anche i finanziamenti per la ricerca di base furono significativi, crescendo da 15 milioni di dollari nel 2001 a 212 milioni nel 2007. Il risultato è stato che venne messo in piedi un intero apparato di biosicurezza globale.

Non era adatto al COVID-19? Il virus COVID-19 ha in qualche modo reso inefficace o irrilevante l’apparato nazionale di bio-sicurezza globale negli Stati Uniti? O il COVID-19 era un virus o una modalità d’infezione radicalmente diversa?

Perché gli esperti hanno fallito

L’esperta di politica urbana Bryna Sanger, co-autrice di After the Cure: Managing AIDS and Other Public Health Crises (con Martin Levin) fornisce una risposta a queste domande. In un post del 15 maggio 2020 dal titolo Lest We are Forced to Repeat Past Mistakes (Per non essere costretti a ripetere gli errori del passato), ha scritto: «La crisi del COVID-19, nonostante la sua ampia diffusione e il massiccio impatto economico, non è così diversa da molte delle crisi di sanità pubblica che gli Stati Uniti hanno affrontato nel corso degli anni. Tuttavia l’attuale condizione di negazione politica, una risposta politica debole e disomogenea, una comunicazione scarsa e confusa e relazioni intergovernative conflittuali sono elementi prevedibili e tipici che minacciano una risposta efficace. Sono, per molti versi, sfide di gestione e delle competenze, più che fallimenti della scienza o della sanità pubblica».

Se la scienza avesse fallito, non saremmo stati in grado di sequenziare il genoma del COVID-19 o di sviluppare un vaccino. Questo tipo di fallimento sarebbe stato una crisi epistemologica, ovvero il fallimento delle forme di conoscenza esistenti per comprendere e rappresentare i fenomeni, cioè per rendere conto degli eventi e delle esperienze che condividiamo. Per fortuna, non si è manifestata una crisi epistemologica.

D’altra parte, le «sfide di gestione e delle competenze» erano miriadi. Per esempio, data l’esistenza di un piano pandemico, è estremamente difficile capire perché non esistesse un sistema standardizzato di gestione della pandemia.

Il reportage della rivista The Atlantic «Why the Pandemic Experts Failed» (Perché gli esperti della pandemia hanno fallito) descrive come un’iniziativa temporanea intrapresa dalla rivista sia diventata una fonte di dati sulla pandemia cruciale per il governo degli Stati Uniti a causa sia dell’assoluta mancanza di metriche standardizzate e di un sistema nazionale standardizzato per i test, sia dell’incapacità di tracciare i dati relativi ai test, ai ricoveri, ai tassi di positività e al numero di morti.

E questa non era solo una mancanza di capacità amministrativa a livello nazionale e federale. Il Covid Tracking Project, lanciato da due giornalisti di The Atlantic in collaborazione con un data scientist e squadre di volontari, testimonia questa mancanza di capacità e fino a che punto la produzione ossessiva di dati nel sistema sanitario nazionale americano non si sia tradotta in dati utilizzabili per una gestione efficace della sanità pubblica.

In Europa la si è chiamata crisi organizzativa

Come negli Stati Uniti, così in Francia e più in generale in Europa, interi apparati governativi per la gestione di una grave pandemia erano stati previsti negli ultimi decenni. Ma anche in Francia, dove la qualità delle infrastrutture pubbliche supera di gran lunga la qualità di quelle statunitensi, le «sfide di gestione e delle competenze» hanno minato la preparazione alla pandemia.

Questa situazione è stata descritta come «una crisi organizzativa», titolo di una perspicace inchiesta in tempo reale sul processo decisionale burocratico francese realizzata in piena pandemia.

Gli autori mostrano come la natura del governo in carica ha strutturato la risposta a un’emergenza pubblica: in Francia, sono stati gli scioperi prolungati e diffusi contro le riforme che hanno plasmato la strategia del governo Macron, che poi si è discostata dal piano preparatorio. Allo stesso modo, la frammentazione burocratica (la formazione di commissioni ad hoc, la sfida di «coordinare il coordinamento» tra agenzie e unità consultive di nuova creazione) e la deriva organizzativa hanno portato a risposte particolari alla pandemia – o alla loro mancanza.

In altre parole, le dinamiche istituzionali hanno generato una particolare crisi, o particolari prassi di gestione del virus COVID-19. È importante rendere conto di queste prassi, che sono costitutive della crisi, invece di dare forma alla crisi come se fosse qualcosa che esiste al di fuori delle relazioni socio-politiche e delle istituzioni.

Soprattutto, come mostrano Henri Bergeron, Olivier Borraz, Patrick Castel e François Dedieu, in Europa (come negli Stati Uniti e in Australia), la preparazione nei confronti di un rischio pandemico è stata sostituita da una focalizzazione sul rischio terroristico. Questa attenzione è parte di un regime normativo esistente che mette le questioni geopolitiche, comprese quelle sui migranti, i rifugiati e l’immigrazione, al di sopra delle questioni sanitarie e del benessere. Soprattutto, questa focalizzazione dice molto di ciò che è in gioco nella definizione della crisi («questa è una crisi»).

Sommersi dalle statistiche

L’inquadramento è importante. Le cornici creano i confini dell’inclusione e dell’esclusione, delineando così gli obiettivi dell’intervento e i limiti della conoscenza. L’inquadramento della crisi e quindi la formulazione delle domande che strutturano la gestione della crisi avvengono a molti livelli. Ci sono inquadramenti geopolitici, sopra menzionati, che sono strutturati da norme riguardanti ciò che conta come «sicurezza umana». Ci sono anche metodi per ipotizzare modelli e rappresentazioni, che sono ugualmente strutturati da assunti riguardanti la vita normativa,3 l’integrità biologica, o ciò che consideriamo una sicurezza dal punto di vista biologico.

Il coronavirus e la pandemia di COVID-19 sono stati entrambi ampiamente strutturati come oggetti di conoscenza e d’intervento riguardo alla sicurezza biologica attraverso set di dati e modelli statistici. Per determinare le strategie appropriate sono stati usati dei modelli: per esempio, la mitigazione contro la soppressione. Modelli diversi si basano su presupposti diversi, come ad esempio ciò che costituisce una categoria naturale di esseri umani, che in questo caso consisteva generalmente in «predisposti, infetti, guariti».

Naturalmente, i modelli riducono necessariamente questioni complesse a singole categorie, ma semplificano anche, in modo correlato, l’interazione sociale. Quest’ultima viene considerata in modo diverso, e con conseguenze diverse, per esempio nei modelli compartimentali, nei modelli basati sull’individuo e nei modelli di rete.

La pandemia di COVID-19 ci è diventata nota quasi esclusivamente come una visualizzazione statistica fatta di curve e onde. Queste visualizzazioni danno forma all’epidemia, creando ciò che David Jones e Stefan Helmreich hanno chiamato «narrazioni di onde» che servono sia come dispositivi predittivi sia come tecniche persuasive. Questi modelli statistici e visualizzazioni generano affermazioni di verità che sono distinte da quelle che potrebbero essere generate da possibili ipotesi alternative su cosa rappresentare, come rappresentarlo e come mobilitare o agire su queste rappresentazioni.

Questo è un punto ribadito con forza dal medico e storico della scienza Warwick Anderson nella sua recente critica all’uso dei modelli statistici come metodo riduttivo per dare giudizi rapidi per prendere decisioni in condizioni d’incertezza, o al fare affidamento sui dati di riproduzione del virus come rappresentazione ultima di un complesso divenire socio-epidemiologico.

Per fortuna, questi modelli sono stati discussi ed è stato chiesto che venissero resi noti i presupposti, che venissero esplicitate le incertezze e i relativi valori normativi allo scopo di mantenere aperta la riflessione o la critica delle rappresentazioni statistiche che stavano guidando specifiche strategie pubbliche. Ma questi dibattiti hanno avuto poco impatto. Riducendo l’eterogeneità, abbiamo ridotto la complessità e quindi la capacità di perseguire inquadramenti e percorsi alternativi.

Abbiamo scelto, nelle parole dell’eminente storico della scienza C.E. Rosenberg, la «visione del contagio», ovvero ci siamo focalizzati sulla questione della trasmissione «di materiale infettivo» tra gli esseri umani, al posto di una «visione della configurazione», che prende in considerazione la più ampia ecologia della vita virale.

Quest’ultimo punto di vista è elaborato in un’ampia ricerca pubblicata sulle ecologie delle malattie, che avrebbe potuto servire come nostro «dispositivo di protezione individuale cognitivo». E invece il COVID-19 è stato costruito come una crisi epidemiologica, precludendo così la sua rappresentazione in termini più eterogenei: o come un fenomeno epidemiologico e socio-economico complesso e reciprocamente costituito, o come una questione di benessere umano e non solo di sicurezza biologica.

Salute come bene comune

Dobbiamo chiederci: cosa rappresenta meglio la sicurezza umana?

Per rispondere a questa domanda, non possiamo accettare ciecamente le dichiarazioni di crisi. Questo non significa che non siano vere. Cioè, la decisione di non accettare ciecamente le dichiarazioni di crisi non equivale alla negazione dell’affermazione di un individuo di aver vissuto una crisi o al disconoscimento dell’affermazione di una comunità d’aver vissuto una crisi. Implica solo un impegno a indagare la formulazione della crisi.

Come viene formulata una dichiarazione di crisi? Quali sono i suoi termini? Come si costituisce la crisi come qualcosa su cui agire?

La crisi è un oggetto di conoscenza. La rivendichiamo, la definiamo, ne stabiliamo i contorni o i limiti, la gestiamo e così via. Ha conseguenze o effetti differenziati per varie popolazioni e comunità. E questo è importante.

La teoria sociale europea ci dice che la crisi implica una svolta. La crisi porta a una svolta perché implica una trasformazione epistemologica. In altre parole, almeno secondo la teoria sociale convenzionale, la crisi significa una trasformazione della produzione di conoscenza e la produzione di affermazioni di verità. Ma dobbiamo fermarci a riflettere: quando si dichiara la crisi, in che misura ci troviamo nel corso di una trasformazione normativa, o del sorgere di nuovi standard normativi?

Dovremmo chiederci se, dichiarando la pandemia COVID-19 una crisi, per esempio, ciò avviene perché certe pretese verità non reggono più. È questo il caso?

Forse è ancora troppo presto per dirlo. Forse i brevetti per i vaccini diventeranno una categoria legalmente discutibile, affermando che le pretese sui diritti di proprietà e sul benessere umano si stanno modificando. E forse una campagna di vaccinazione finanziata e gestita su scala globale diventerà una pratica standard negli anni a venire. Forse.

Tuttavia, e purtroppo, per la maggior parte, possiamo vedere abbastanza distintamente come, nel caso del COVID-19, la dichiarazione di crisi riconferma implicitamente le norme sulla sanità pubblica e su ciò che consideriamo essere la sicurezza umana. In questo caso, non c’è nessuna trasformazione epistemologica, nessuna nuova pretesa di verità.

Negli Stati Uniti, la dichiarazione della crisi deriva da disparità razziali e socioeconomiche molto serie e profonde nella sanità e nel benessere pubblici, che sono la norma. Queste disparità includono differenze nelle condizioni di vita e di lavoro, e un accesso differenziato alle cure mediche. La risposta al COVID-19 come crisi di sanità pubblica non è servita ad attenuare o ad affrontare queste disparità.

Le povertà saranno esacerbate

A dire la verità, l’Urban Institute, un think tank statunitense, riferisce che l’American Rescue Plan Act del 2021 prevede di ridurre il tasso di povertà dal 13,9% del 2018 al 7,7% nel 2021. Questa è una riduzione significativa e testimonia il potere del welfare pubblico. Ma purtroppo si tratta di una riduzione per un anno (il 2021) che dipende in gran parte dagli assegni federali di stimolo versati direttamente alle famiglie. Questi programmi d’emergenza termineranno; le cause strutturali della povertà rimarranno.

Come negli Stati Uniti, così la persistenza e l’esacerbazione della disuguaglianza di reddito e di ricchezza è una caratteristica della vita in Francia e nel Regno Unito. Senza un reddito di base universale, o dei «baby bonds»4 per affrontare il divario di ricchezza razziale, o un fondo «capitale di base universale» che fornisca equità e quindi redistribuzione della ricchezza ai cittadini, la «crisi COVID-19» non genererà né la trasformazione epistemologica né quella strutturale che si pensa che le crisi inneschino.

Al contrario, la dichiarazione di crisi è servita solo a esacerbare le disuguaglianze socio-economiche, perché il welfare sociale non è una caratteristica fondamentale della preparazione a una pandemia. Questo è il caso degli Stati Uniti, che costituisce uno degli esempi più drammatici di disuguaglianza di reddito a causa dei differenziali di reddito da capitale (in opposizione al reddito da lavoro).5 Nei paesi di tutto il mondo, l’insicurezza alimentare è aumentata, anche in Europa e Nord America. In effetti, queste disuguaglianze sono di scala globale e sono esacerbate dal nazionalismo vaccinale.6 Purtroppo, nonostante gli schemi di preparazione alle pandemie abbiano ormai molti anni, il welfare sociale non è incluso nel Global Health Security Index, il punto di riferimento per il confronto dei diversi paesi sulle loro capacità di gestire «eventi biologici catastrofici».

Prendiamo dolorosamente atto che, nonostante le disuguaglianze socio-economiche in forte aumento sia all’interno delle nazioni sia in tutto il mondo, e nonostante tutte le sofferenze e i lutti in corso, la sicurezza umana definita in termini di welfare sociale non è emersa come un nuovo regime normativo.

Janet Roitman è docente di Antropologia all’Università The New School di New York e autrice – tra gli altri – del volume Anti-crisis, Duke University Press, Durham (NC) 2013. L’articolo, che qui pubblichiamo in una nostra traduzione dall’inglese, è tratto dalla rivista Arena 12.11.2021; esso era stato pubblicato in una versione più breve in The Public Seminar, il 3.11.2021. Ringraziamo l’autrice e le testate per la gentile concessione.

Cf. H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe. Fortieth Anniversary Edition, Johns Hopkins University Press, New York 2014; trad. it. Metahistory. Retorica e storia, Meltemi, Milano 2019.

Cf. R. Koselleck, Kritik und Krise. Eine Studie zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Karl Alber, Freiburg – München 1959; trad. it. Critica illuministica e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1972.

Cf. G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, Presses Universitaires de France, Paris 2013.

D. Hamilton, W. Darity jr, «Can ‘Baby Bonds’ Eliminate the Racial Wealth Gap in Putative Post-Racial America? », in The Review of Black Political Economy (2010) 1, gennaio.

T. Piketty, Le Capital au XXIe siècle, Éditions du Seuil, Paris 2013; trad. it. Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.

Ph. Stephens, «Supply chain “sovereignty” will undo globalisation’s gains», in Financial Times, 18.3.2021, https://on.ft.com/3fBNgNe.

Published 7 February 2022
Original in English
First published by Public Seminar (English version), Il Regno 2/2022 (Italian version)

Contributed by Il Regno © Janet Roitman / Il Rego / Public Seminar / Eurozine

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