Come cambiare la storia dell’umanità
La disuguaglianza è considerata una conseguenza inevitabile della civiltà. Ma molti studi smentiscono questa tesi e suggeriscono che un’alternativa è possibile
Per spiegare le origini della disuguaglianza sociale, da secoli ci raccontiamo una storia piuttosto semplice. Per la maggior parte della loro esistenza, gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. Poi è arrivata l’agricoltura, che ha portato con sé la proprietà privata, e sono apparse le città. Questo ha determinato la nascita della civiltà propriamente detta. La civiltà ha significato molte cose brutte (guerre, tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù), ma ha anche reso possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia e tante altre grandi conquiste umane.
Quasi tutti conoscono questa storia nelle linee generali. Almeno dai tempi di Jean-Jacques Rousseau, riassume le nostre idee sul disegno generale e la direzione della storia dell’umanità. Ed è un fatto importante, perché questa narrazione definisce anche il nostro senso della possibilità politica. Molti considerano la civiltà, e quindi la disuguaglianza, una tragica necessità. Alcuni sognano di tornare a un passato utopico, di trovare un equivalente industriale del “comunismo primitivo” o addirittura, in casi estremi, di distruggere tutto e ricominciare a essere cacciatori e raccoglitori. Ma nessuno mette in discussione la struttura di base della storia. Eppure c’è un problema di fondo in questa narrazione: non è vera.
L’archeologia, l’antropologia e le discipline affini offrono prove schiaccianti che cominciano a delineare un quadro piuttosto chiaro degli ultimi quarantamila anni della storia umana, e questo quadro non somiglia affatto alla narrazione convenzionale. In realtà la nostra specie non ha passato gran parte della sua storia in minuscoli gruppi; l’agricoltura non ha segnato una svolta irreversibile nell’evoluzione sociale; le prime città spesso furono profondamente ugualitarie. Anche se i ricercatori sono gradualmente arrivati a un consenso generale su questi temi, gli autori che riflettono sui “grandi problemi” della storia umana – Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian Morris e altri – continuano a prendere come punto di partenza l’interrogativo di Rousseau (“Qual è l’origine della disuguaglianza sociale?”) e danno per scontato che la grande storia cominci con una sorta di perdita dell’innocenza primordiale.
Già solo inquadrare la questione in questi termini significa partire da una serie di presupposti: che esiste una cosa che si chiama disuguaglianza, che la disuguaglianza è un problema e che c’è stato un tempo in cui la disuguaglianza non esisteva. Con la crisi finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne sono seguiti, il “problema della disuguaglianza sociale” è diventato centrale nel dibattito pubblico. Negli ambienti politici e intellettuali sembra dominare la convinzione che i livelli di disuguaglianza sociale siano aumentati a dismisura sfuggendo a ogni controllo e che da questo, in un modo o nell’altro, dipendano quasi tutti i problemi del mondo. Oggi denunciare questa realtà è considerato una sfida alle strutture di potere globale, ma pensate a come questi problemi sarebbero stati discussi una generazione fa. A differenza di termini come “capitale” o “potere di classe”, la parola “disuguaglianza” sembra fatta apposta per condurre a mezze misure e compromessi. Si può immaginare di rovesciare il capitalismo o di abbattere il potere dello stato, ma è molto difficile immaginare di cancellare la “disuguaglianza”. Di fatto, non è neppure chiaro cosa significhi, perché le persone non sono tutte uguali e nessuno vorrebbe davvero che lo fossero.
“Disuguaglianza” è un modo di inquadrare i problemi sociali adatto ai tecnocrati riformisti, i quali partono dal presupposto che qualunque reale trasformazione sociale è esclusa dal dibattito politico da molto tempo. Consente di armeggiare con i numeri, ragionare sui coefficienti di Gini, ricalibrare i regimi fiscali e lo stato sociale, consente perfino di spaventare l’opinione pubblica con cifre che dimostrano quanto è peggiorata la situazione (“Ci pensate? Lo 0,1 per cento della popolazione mondiale controlla più del 50 per cento della ricchezza!”), e tutto ciò senza affrontare nessuno degli aspetti che la gente critica realmente di questi ordinamenti sociali così “disuguali”: per esempio il fatto che alcuni riescono a trasformare la loro ricchezza in potere, mentre altre persone si sentono dire che le loro esigenze non sono importanti e la loro vita non ha un valore in sé. Tutto questo sarebbe solo l’effetto inevitabile della disuguaglianza, e la disuguaglianza sarebbe la conseguenza ineludibile del vivere in qualunque società grande, complessa, urbana e tecnologicamente sofisticata.
Le scienze sociali dominanti oggi sembrano voler rafforzare questo senso d’impotenza. Quasi ogni mese ci troviamo davanti a pubblicazioni che cercano di proiettare sull’età della pietra l’attuale ossessione per la distribuzione della proprietà, e ci spingono a una falsa ricerca di “società ugualitarie” definite in termini che ne rendono impossibile l’esistenza al di fuori di qualche minuscolo gruppo di cacciatori-raccoglitori (e forse neanche in quelli).
L’opinione comune sul corso generale della storia umana si può riassumere più o meno così: circa duecentomila anni fa, alla comparsa dell’Homo sapiens anatomicamente moderno, la nostra specie viveva in gruppi piccoli e mobili che comprendevano tra i venti e i quaranta individui. Cercavano i territori migliori per cacciare e procurarsi da mangiare, seguendo i branchi, raccogliendo noci e bacche. Quando le risorse cominciavano a scarseggiare o emergevano tensioni sociali, reagivano spostandosi altrove. Per questi primi esseri umani – potremmo parlare di infanzia dell’umanità – la vita era piena di pericoli, ma anche di possibilità. C’erano pochi beni materiali, ma il mondo era un posto incontaminato e invitante. La maggior parte di loro lavorava solo poche ore al giorno, e le dimensioni ridotte dei gruppi sociali permettevano di mantenere un disinvolto cameratismo, senza strutture formali di dominio. Nel settecento Rousseau lo definì “stato di natura”, ma oggi si presume che sia durato per la maggior parte della nostra storia. Si presume anche che quella fu l’unica era in cui gli umani riuscirono a vivere in autentiche società di uguali, senza classi, caste, capi ereditari o governi centralizzati.
Purtroppo questo idillio era destinato a finire. La versione convenzionale della storia mondiale colloca questo momento intorno a diecimila anni fa, al termine dell’ultima era glaciale. Aquel punto, i nostri immaginari attori umani erano sparsi in tutti i continenti, e cominciarono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame. Quali che fossero le ragioni a livello locale (l’argomento è oggetto di discussione), gli effetti furono epocali, e sostanzialmente identici dappertutto. L’attaccamento al territorio e la proprietà privata dei beni acquistarono un’importanza prima sconosciuta, e cominciarono scontri sporadici e guerre.
L’agricoltura garantiva un’eccedenza di cibo, che permise ad alcuni di accumulare ricchezza e potere al di là del ristretto gruppo familiare. Altri usarono l’affrancamento dalla ricerca di cibo per sviluppare nuove abilità, come costruire armi, utensili, veicoli e fortificazioni o per dedicarsi alla politica e alla religione organizzata. Di conseguenza, questi “agricoltori del neolitico” ebbero presto la meglio sui loro vicini cacciatori-raccoglitori e cominciarono a eliminarli o assorbirli in un nuovo stile di vita, superior ma meno ugualitario.
A complicare ulteriormente le cose, così continua la storia, l’agricoltura provocò un aumento globale della popolazione. Man mano che si univano in concentrazioni sempre più grandi, i nostri progenitori fecero un altro passo irreversibile verso la disuguaglianza e circa seimila anni fa comparvero le città: a quel punto il nostro destino fu segnato. Con le città arrivò l’esigenza di un governo centrale. Nuove classi di burocrati, sacerdoti e politici-guerrieri assunsero cariche permanenti per mantenere l’ordine e garantire i servizi pubblici e la regolarità degli approvvigionamenti. Le donne, che un tempo avevano un ruolo preminente negli affari umani, furono isolate o imprigionate negli harem. I prigionieri di guerra diventarono schiavi. Arrivò la vera e propria disuguaglianza, e non ci fu modo di liberarsene.
Eppure, ci assicurano sempre i narratori, la nascita della civiltà urbana ebbe anche aspetti positivi. Fu inventata la scrittura, in un primo momento per tenere la contabilità dello stato, che consentì progressi straordinari nella scienza, nella tecnologia e nelle arti. Aprezzo dell’innocenza siamo diventati moderni, e ora possiamo solo guardare con compassione e invidia a quelle poche società “tradizionali” o “primitive” che in qualche modo hanno perso il treno.
Dalle bande agli imperi
Questa è la storia che, come abbiamo detto, costituisce la base di tutto il dibattito contemporaneo sulla disuguaglianza. Se un esperto di relazioni internazionali o uno psicologo vogliono riflettere su questi temi, probabilmente daranno per scontato che per gran parte della loro storia gli esseri umani hanno vissuto in piccoli gruppi ugualitari o che la nascita delle città ha determinato la nascita dello stato. Lo stesso vale per i libri più recenti che guardano alla preistoria per trarre conclusioni politiche attinenti alla realtà contemporanea. Prendiamo The origins of political order (2011) del politologo Francis Fukuyama:
Nelle sue prime fasi, l’organizzazione politica umana è simile alla società in bande che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé. Può essere considerata come una forma quasi automatica di organizzazione sociale. Rousseau ha sottolineato che l’origine della disuguaglianza politica va ricercata nello sviluppo dell’agricoltura, e ha in larga misura ragione.
Il biologo Jared Diamond, nel suo saggio Il mondo fino a ieri (Einaudi 2012), suggerisce che queste bande (in cui ritiene che gli esseri umani abbiano vissuto “fino ad appena undicimila anni fa”) comprendevano solo “poche decine di individui”, per lo più biologicamente imparentati, e conclude che solo in questi gruppi primordiali la specie umana ha raggiunto un grado significativo di uguaglianza sociale.
Per Diamond e Fukuyama, come per Rousseau qualche secolo prima, a mettere fine a quell’uguaglianza – ovunque e per sempre – furono l’invenzione dell’agricoltura e il conseguente aumento della popolazione. L’agricoltura provocò una transizione dalle “bande” alle “tribù”. Le eccedenze alimentari consentirono la crescita della popolazione, portando alcune “tribù” a svilupparsi in società gerarchiche governate da un capotribù.
Ben presto i capitribù si proclamarono re e perfino imperatori. Resistere non aveva senso. Una volta adottate forme di organizzazione grandi e complesse le conseguenze erano inevitabili. Equando i capi cominciarono a comportarsi male – appropriandosi delle eccedenze di cibo per favorire parenti e lacchè, rendendo la loro posizione permanente ed ereditaria, collezionando crani come trofei e harem di schiave o strappando il cuore dei rivali con coltelli di ossidiana – era troppo tardi per tornare indietro. “Le popolazioni numerose”, sostiene Diamond, “non possono funzionare senza capi che prendono le decisioni, esecutori che le attuano e burocrati che amministrano le decisioni e le leggi”.
Anche gli antropologi e gli archeologi, quando cercano di dare un quadro complessivo, finiscono molto spesso per ripetere la versione di Rousseau, con qualche piccola variazione. In The creation of inequality (2012), Kent Flannery e Joyce Marcus impiegano circa cinquecento pagine di studi etnografici e archeologici per cercare di risolvere il mistero. L’aspetto curioso del libro di Flannery e Marcus è che tutti gli aspetti davvero cruciali della loro ricostruzione delle “origini della disuguaglianza” si basano su osservazioni relativamente recenti di raccoglitori, allevatori e coltivatori su piccola scala, come gli hadza della Rift valley in Africa orientale o i nambikwara della foresta pluviale amazzonica. Le descrizioni di queste “società tradizionali” sono trattate come se fossero finestre sull’era del paleolitico o del neolitico. Il problema è che non è affatto così. Gli hadza e i nambikwara non sono fossili viventi. Sono in contatto da millenni con stati agrari e imperi, razziatori e mercanti, e le loro istituzioni sociali si sono formate in seguito ai tentativi di trattare con loro o di evitarli. Solo l’archeologia può dirci se hanno qualcosa in comune con le società preistoriche. Anche se Flannery e Marcus offrono molti spunti interessanti su come potrebbero nascere le disuguaglianze nelle società umane, non ci danno molte ragioni per credere che le cose siano andate realmente così.
Il paradosso di Rousseau
La cosa veramente bizzarra di tutte queste evocazioni dello stato di natura di Rousseau e della perdita dell’innocenza è che lo stesso Rousseau non ha mai sostenuto che lo stato di natura fosse esistito davvero. Era solo un esercizio teorico. Nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini del 1754, su cui si basa gran parte della storia che ci siamo raccontati, Rousseau scrive:
Le ricerche che possiamo fare in questa occasione non vanno prese per verità storiche, ma solo come ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatte a chiarire la natura delle cose che a svelarne la vera origine.
Lo stato di natura di Rousseau non è mai stato concepito come una fase dello sviluppo. Era piuttosto un racconto allegorico. Come ha sottolineato la politologa Judith Shklar, in realtà Rousseau stava cercando di approfondire quello che considerava il paradosso fondamentale della politica umana, e cioè che la nostra innata ricerca della libertà in qualche modo ci porta ogni volta a una “spontanea marcia verso la disuguaglianza”.
Dobbiamo concludere che i rivoluzionari non si sono dimostrati molto ricchi d’immaginazione, soprattutto quando si tratta di collegare passato, presente e futuro. Tutti continuano a raccontare la stessa storia. Probabilmente non è un caso se oggi, agli albori del nuovo millennio, i movimenti rivoluzionari più vitali e creativi, come gli zapatisti del Chiapas e i curdi del Rojava, sono quelli che si radicano in un passato profondamente tradizionale. Invece di immaginare una qualche utopia primordiale, possono ispirarsi a una narrazione più complessa. Di fatto sembra esserci una consapevolezza sempre maggiore, negli ambienti rivoluzionari, che la libertà, la tradizione e l’immaginazione sono state e saranno sempre intrecciate in modi che non comprendiamo fino in fondo. È arrivato il momento che anche tutti gli altri si aggiornino e comincino a considerare una versione non biblica della storia umana.
Quindi cosa ci hanno insegnato davvero le ricerche archeologiche e antropologiche condotte dopo Rousseau? Per prima cosa, che probabilmente interrogarsi sulle “origini della disuguaglianza sociale” è un punto di partenza sbagliato. La verità è che non abbiamo idea di come fosse la vita sociale umana prima dell’inizio di quello che chiamiamo paleolitico superiore.
Le più antiche prove concrete sull’organizzazione sociale umana nel paleolitico vengono soprattutto dall’Europa, dove la nostra specie visse a fianco dell’Homo neanderthalensis fino all’estinzione di quest’ultimo circa quarantamila anni fa. Aquell’epoca, e per tutto l’ultimo massimo glaciale, le zone abitabili dell’Europa somigliavano più al parco del Serengeti in Tanzania che a un qualunque habitat europeo di oggi. Asud delle calotte glaciali, fra la tundra e le sponde del Mediterraneo, si stendevano vallate popolate da animali selvatici e steppe attraversate da mandrie di cervi, bisonti e mammut. Gli studiosi della preistoria ribadiscono da decenni – a quanto sembra con scarsi risultati – che gli abitanti di questi ambienti non avevano niente in comune con quelle bande ugualitarie e semplici di cacciatori-raccoglitori che immaginiamo come nostri lontani progenitori.
Tanto per cominciare c’è l’esistenza indiscussa di ricche sepolture, che risalgono fino al culmine dell’era glaciale. Nel permafrost sotto l’insediamento paleolitico di Sunghir, a est di Mosca, è stata trovata la tomba di un uomo di mezza età sepolto – come osserva Felipe Fernándes-Armesto nella sua recensione di The creation of inequality sul Wall Street Journal – con “stupefacenti segni di prestigio sociale: braccialetti d’avorio, un diadema di denti di volpe e quasi tremila perle d’avorio laboriosamente scolpite e levigate”. Apochi metri di distanza, in una tomba identica, “giacevano due bambini di 10 e 13 anni, adorni di doni funerari dello stesso tipo, comprese circa cinquemila perle e una lancia d’avorio”.
Sepolture altrettanto ricche sono state scoperte nelle grotte e negli insediamenti del paleolitico superiore in gran parte dell’Eurasia occidentale. Per esempio, la “signora di Saint-Germain-de-la-Rivière”, risalente a 16mila anni fa, che indossava ornamenti realizzati con i denti di giovani cervi cacciati a trecento chilometri di distanza, nel paese basco spagnolo, e le sepolture della costa ligure, come quella del “giovane principe”, che nel suo corredo funerario ha una lunga lama di selce, bastoni di corna di alce e un elaborato copricapo di conchiglie traforate e denti di cervo. Questi ritrovamenti pongono sfide interpretative stimolanti. Ha ragione Fernández-Armesto nel sostenere che sono le prove di un “potere ereditato”? Qual era lo status di questi individui?
Non meno misteriose sono le sporadiche ma affascinanti tracce di architettura monumentale che risalgono all’ultimo massimo glaciale. Il pleistocene non ha nulla di paragonabile per dimensioni alle piramidi di Giza o al Colosseo. Però ha costruzioni che, per gli standard dell’epoca, potevano essere considerate solo opere pubbliche, perché implicano una progettazione sofisticata e un impressionante coordinamento della manodopera. Tra queste ci sono le straordinarie “case dei mammut”, costituite da una struttura di zanne rivestita di pelli, di cui si possono trovare esempi databili intorno a 15mila anni fa nella fascia tra Cracovia e Kiev.
Ancora più stupefacenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe, rinvenuti più di vent’anni fa alla frontiera tra Siria e Turchia e tuttora al centro di un vivace dibattito scientifico. Databili intorno a 11mila anni fa, proprio alla fine dell’ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti megalitici. Ognuno era formato da pilastri di calcare alti più di cinque metri e pesanti fino a una tonnellata. Quasi ogni megalite di Göbekli Tepe è un’impressionante opera d’arte, ornata da bassorilievi di animali feroci con i genitali maschili orgogliosamente in mostra. Uccelli rapaci si alternano a immagini di teste umane mozzate. Le incisioni danno prova di capacità scultoree che erano state certamente affinate sul più malleabile legno. Malgrado le loro dimensioni, ciascuna di queste enormi strutture ebbe una vita relativamente breve, che si concluse con un grande banchetto e l’interramento delle sue mura: gerarchie innalzate per essere subito abbattute. I protagonisti di questo spettacolo di costruzione e distruzione erano, per quanto ci è dato sapere, cacciatori-raccoglitori che vivevano dei frutti della natura.
Cosa dovremmo dedurne allora? Alcuni studiosi suggeriscono di abbandonare completamente l’idea di un’età dell’oro ugualitaria e concludere che l’interesse egoistico e l’accumulazione del potere sono le forze che da sempre sottendono lo sviluppo sociale umano. Ma neanche questo funziona davvero. I segni di disuguaglianza strutturale nelle società dell’era glaciale sono solo sporadici. Le sepolture appaiono a secoli e spesso a centinaia di chilometri di distanza.
Regni stagionali
Anche se questo fosse dovuto alla frammentarietà delle prove, dobbiamo chiederci perché le prove sono così frammentarie: se questi “principi” dell’era glaciale si fossero comportati come i principi dell’età del bronzo, troveremmo anche fortificazioni, magazzini, palazzi e tutti i segni degli stati emergenti. Invece, per decine di millenni vediamo monumenti e sepolture magnifiche, ma poco altro che indichi la comparsa di società gerarchiche. Poi ci sono elementi ancora più strani, come il fatto che la maggioranza delle sepolture “principesche” contiene individui con impressionanti anomalie fisiche che oggi sarebbero considerati giganti, gobbi o nani.
Un’analisi più ampia dei reperti archeologici suggerisce una risposta che riguarda i ritmi stagionali della vita sociale preistorica. Gran parte dei siti paleolitici citati fin qui sono associati a segni di aggregazioni annuali o biennali, legate alle migrazioni degli animali – che si tratti di mammut, bisonti della steppa, renne o (nel caso di Göbekli Tepe) gazzelle – o alle migrazioni cicliche dei pesci e ai raccolti di noci.
In periodi meno favorevoli dell’anno, almeno alcuni dei nostri antenati dell’era glaciale sicuramente vivevano e si procuravano da mangiare in piccoli gruppi. Ma ci sono prove schiaccianti che in altri momenti si riunivano in massa in micro-città come quelle trovate a Dolni Vĕstonice, nella Repubblica Ceca, per approfittare della sovrabbondanza di risorse naturali, impegnarsi in complessi rituali e imprese artistiche e scambiare minerali, conchiglie e pelli di animali, coprendo distanze impressionanti. Gli equivalenti di questi siti di aggregazione stagionale in Europa occidentale sarebbero i grandi rifugi rupestri del Périgord francese e della costa cantabrica, con i loro famosi dipinti e le celebri incisioni, che facevano anch’essi parte di un ciclo annuale di aggregazione e dispersione.
Questi modelli stagionali di vita sociale sopravvissero a lungo dopo l’“invenzione dell’agricoltura”, che in teoria avrebbe dovuto cambiare tutto. Nuove prove dimostrano che questo genere di ciclicità potrebbe essere la chiave per comprendere i famosi monumenti neolitici della piana di Salisbury. Stonehenge sarebbe solo l’ultima di una lunghissima sequenza di strutture rituali in legno o in pietra che venivano erette quando la gente arrivava nella pianura dagli angoli più remoti delle isole britanniche in certi periodi dell’anno. Gli scavi hanno dimostrato che molte di queste strutture – ora interpretate plausibilmente come monumenti ai progenitori di potenti dinastie del neolitico – furono smantellate poche generazioni dopo la loro costruzione.
La cosa impressionante è che questa abitudine di erigere e smantellare monumenti grandiosi coincide con un periodo in cui i popoli del Regno Unito, che avevano importato l’economia agricola del neolitico dall’Europa continentale, sembravano aver abbandonato un aspetto essenziale, interrompendo la coltivazione dei cereali e tornando – intorno al 3300 aC – alla raccolta di nocciole come risorsa alimentare di base. I costruttori di Stonehenge continuavano ad allevare bovini e probabilmente non erano né agricoltori né cacciatori-raccoglitori, ma una via di mezzo. Ese nella stagione festiva, quando si radunavano in massa, s’instaurava qualcosa di simile a una corte reale, questa non poteva che dissolversi per buona parte dell’anno, quando le stesse persone tornavano a sparpagliarsi in tutta l’isola.
Perché queste variazioni stagionali sono importanti? Perché rivelano che fin dall’inizio gli esseri umani hanno consapevolmente sperimentato diverse possibilità sociali. Secondo gli antropologi le società di questo tipo erano caratterizzate da una “doppia morfologia”. All’inizio del novecento Marcel Mauss osservò che gli inuit dell’Artico “e analogamente molte altre società hanno due strutture sociali, una d’estate e l’altra d’inverno, e due sistemi di legge e di religione paralleli”. Nei mesi estivi gli inuit si disperdevano in piccole bande patriarcali, ciascuna sotto l’autorità di un unico maschio anziano, alla ricerca di pesci d’acqua dolce, caribù e renne. La proprietà privata era chiaramente contrassegnata e i patriarchi esercitavano un potere coercitivo, a volte addirittura tirannico, sui loro familiari. Ma nei lunghi mesi invernali, quando foche e trichechi affollavano il litorale artico, subentrava un’altra struttura sociale e gli inuit si riunivano per costruire grandi case comuni di legno, ossa di balena e pietra. In queste case regnavano i princìpi dell’uguaglianza, dell’altruismo e della vita collettiva; la ricchezza veniva condivisa; mariti e mogli si scambiavano i partner sotto l’egida della dea Sedna.
Ancora più sorprendenti, in termini di capovolgimenti politici, erano le pratiche stagionali delle confederazioni tribali dell’ottocento nelle grandi pianure americane: agricoltori occasionali o ex agricoltori che avevano adottato una vita nomade dedita alla caccia. Alla fine dell’estate, piccole bande di cheyenne e lakota si riunivano in grandi insediamenti per prepararsi alla caccia al bisonte. In questo importantissimo periodo dell’anno creavano una forza di polizia che aveva poteri coercitivi assoluti, compreso il diritto di imprigionare, frustare o multare qualunque trasgressore ostacolasse i preparativi. Eppure, come ha osservato l’antropologo Robert Lowie, questo “indubbio autoritarismo” era temporaneo, e cedeva il posto a forme di organizzazione più “anarchiche” una volta conclusa la stagione della caccia e i rituali collettivi che la seguivano.
Avanti e indietro
I reperti archeologici suggeriscono che negli ambienti molto stagionali dell’ultima era glaciale i nostri progenitori si comportavano in modi assai simili: alternando ordinamenti sociali molto diversi, consentendo la comparsa di strutture autoritarie in certi periodi dell’anno a condizione che non potessero durare, e con l’intesa che nessun particolare ordine sociale era mai fisso o immutabile. All’interno della stessa popolazione si poteva vivere in quella che a volte sembra una banda, alter volte una tribù e altre volte ancora una società con molte delle caratteristiche che oggi attribuiamo agli stati.
Questa flessibilità istituzionale offre la possibilità di uscire dai confini di una certa struttura sociale e riflettere, di fare e disfare i mondi politici in cui si vive. Se non altro, questo spiega i “principi” e le “principesse” dell’ultima era glaciale, che sembrano i personaggi di una fiaba o di un di un dramma in costume. Forse lo erano, quasi letteralmente. Se mai hanno regnato, forse è stato – come per i re e le regine di Stonehenge – per una sola stagione.
Gli autori moderni tendono a usare la preistoria per riflettere su problemi filosofici: gli esseri umani sono sostanzialmente buoni o cattivi, collaborativi o competitivi, ugualitari o gerarchici? Quindi tendono a scrivere come se per il 95 per cento della storia della nostra specie le società siano state in larga misura sempre uguali. Ma quarantamila anni sono un periodo lungo, lunghissimo. Sembra altamente probabile, e le prove lo confermano, che quegli stessi pionieri umani che colonizzarono gran parte del pianeta abbiano anche sperimentato un’enorme varietà di ordinamenti sociali.
Come spesso ha sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo sapiens non erano uguali agli umani moderni solo fisicamente, ma anche a livello intellettuale. Molto probabilmente erano più consapevoli del potenziale della società di quanto generalmente lo siamo oggi, visto che ogni anno passavano da una forma di organizzazione all’altra. Invece di oziare in un’innocenza primordiale finché il genio della disuguaglianza è riuscito in qualche modo a liberarsi, i nostri antenati preistorici sembrano essere riusciti ad aprire e chiudere regolarmente la bottiglia, confinando la disuguaglianza nei drammi in costume rituali, costruendo divinità e regni come costruivano i loro monumenti per poi smantellarli allegramente.
Se è così allora non dovremmo chiederci quali sono le origini delle disuguaglianze sociali, ma perché – dato che abbiamo passato una parte così grande della nostra storia facendo avanti e indietro fra sistemi politici diversi – a un certo punto siamo rimasti bloccati. Tutto questo è molto distante dalla nozione che le società preistoriche siano scivolate ciecamente verso le catene istituzionali che le hanno legate. Eanche dalle cupe profezie di Fukuyama, Diamond e altri, secondo cui ogni forma di organizzazione sociale complessa comporta necessariamente che piccole élite prendano il controllo delle risorse chiave e comincino a calpestare tutti gli altri. La maggior parte delle scienze sociali le considera verità autoevidenti, ma sono infondate. Quindi potremmo chiederci quali altre verità acclarate dovrebbero essere gettate nella pattumiera della storia.
L’idea che l’agricoltura abbia segnato una grande transizione nelle società umane non è più sostenuta da prove concrete. Nelle parti del mondo dove animali e piante furono addomesticati per la prima volta, non c’è stato un passaggio repentino e riconoscibile dal cacciatore-raccoglitore del paleolitico all’agricoltore del neolitico. La “transizione” da un’esistenza basata sulle risorse spontanee a una basata sulla produzione del cibo di regola ha richiesto qualcosa come tremila anni. Anche se l’agricoltura consentiva la possibilità di una più disuguale concentrazione di ricchezza, nella maggioranza dei casi questo cominciò a succedere millenni dopo la sua comparsa.
Nel frattempo, gli umani che vivevano in zone lontanissime come l’Amazzonia e la mezzaluna fertile in Medio Oriente facevano esperimenti con l’agricoltura, “giocavano agli agricoltori”, in un certo senso, cambiando ogni anno i modi di produzione proprio come alternavano le loro strutture sociali. Inoltre, la “diffusione dell’agricoltura” in aree secondarie come l’Europa – spesso descritta in termini trionfalistici come l’inevitabile declino della caccia e della raccolta – in realtà è stata un processo estremamente delicato che a volte è fallito, portando a un crollo demografico tra gli agricoltori ma non tra i cacciatori-raccoglitori.
Chiaramente, non ha più senso usare espressioni come “la rivoluzione dell’agricoltura” quando parliamo di processi di così straordinaria lunghezza e complessità. Epoiché non esisteva un eden da cui i primi agricoltori potessero cominciare il percorso verso la disuguaglianza, ha ancora meno senso sostenere che l’agricoltura ha posto le basi della gerarchia o della proprietà privata. Almeno in alcuni casi, come in Medio Oriente, i primi agricoltori sembrano aver consapevolmente sviluppato forme alternative di comunità per adattarsi a uno stile di vita che richiedeva più lavoro. Queste società neolitiche appaiono sorprendentemente ugualitarie rispetto ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, con un sensibile aumento dell’importanza economica e sociale delle donne, che si riflette chiaramente nell’arte e nei rituali (basta confrontare le figurine femminili di Gerico o Çatalhöyük con le sculture ipermascoline di Göbekli Tepe).
Piccole ingiustizie
La civiltà non è un pacchetto preconfezionato. Le prime città non apparirono dal nulla insieme a sistemi di governo centralizzato e di controllo burocratico. Oggi sappiamo che in Cina nel 2500 aC esistevano già insediamenti di più di trecento ettari lungo il corso inferiore del fiume Giallo, più di mille anni prima della fondazione della prima dinastia reale (Shang). Sull’altra sponda del Pacifico, nella valle del rio Supe, in Perù, sono stati scoperti centri cerimoniali di dimensioni impressionanti che risalgono più o meno allo stesso periodo: rovine enigmatiche di piazze e piattaforme monumentali, che precedono di quattromila anni l’impero degli inca.
Queste recenti scoperte dimostrano quanto poco sappiamo realmente sulla distribuzione e l’origine delle prime città, che potrebbero essere molto più antiche dei sistemi di governo autoritario e di amministrazione basata sulla scrittura che un tempo ritenevamo necessari alla loro fondazione. Ein quelli che conosciamo come i maggiori centri della prima urbanizzazione – la Mesopotamia, la valle dell’Indo, il bacino del Messico – sono sempre più numerosi i segni che le prime città erano organizzate secondo princìpi deliberatamente ugualitari, con i consigli municipali che avevano una significativa autonomia dal governo centrale. Nei primi due casi, per oltre cinquecento anni fiorirono città con sofisticate infrastrutture civiche ma senza traccia di sepolture reali e di monumenti, senza eserciti permanenti o altri mezzi di coercizione su larga scala e senza neppure un accenno di controllo burocratico diretto sulla vita dei cittadini.
Ci sono tutti i tasselli per creare una storia del mondo completamente diversa. È solo che siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per vederne le implicazioni. Per esempio, quasi tutti oggi ripetono che la democrazia partecipativa e l’uguaglianza sociale possono funzionare in una piccola comunità o in un gruppo di attivisti, ma non possono essere applicate a una città, a una regione o a uno stato. Ma l’evidenza davanti ai nostri occhi, se ci decidiamo a guardarla, suggerisce il contrario. Le città ugualitarie, e perfino le confederazioni regionali, sono storicamente piuttosto comuni. Le famiglie e le case ugualitarie non lo sono.
Quando sarà pronunciato il verdetto della storia, capiremo che la perdita più dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di relazioni tra sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti che esprimono allo stesso tempo la massima intimità e le forme più profonde di violenza strutturale. Se vogliamo davvero capire come diventò accettabile per la prima volta che alcuni trasformassero la ricchezza in potere mentre altri finivano col sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il difficilissimo lavoro di creare una società libera.
Published 18 October 2018
Original in English
Translated by
Giuseppina Cavallo
First published by Eurozine (original English version), Internazione (Italian translation)
© David Graeber, David Wengrow / Giuseppina Cavallo / Internazionale / Eurozine
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