Alta cultura o cultura di massa?

Conversazione tra Mario Vargas Llosa e Gilles Lipovetsky

Mario Vargas Llosa: La civiltà dello spettacolo è un saggio che esprime preoccupazione, per non dire angoscia, nel vedere che ciò che intendevamo per “cultura” quando io ero giovane si è, nel corso della mia vita, trasformato in qualcosa di molto diverso rispetto agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Il libro cerca di raccontare più o meno in che cosa sia consistita questa trasformazione e anche di vedere quali effetti può avere la deriva che ha preso oggi quella che chiamiamo cultura in diversi aspetti dell’attività umana – nella sfera sociale, in quella politica, religiosa, sessuale, eccetera – partendo dal presupposto che la cultura pervade tutte le attività della vita.

Mario Vargas Llosa, 23 February 2011. Photo: Pontificia Universidad Católica de Chile.

Il libro non vuole essere pessimista, ma vuole
porre il problema e invitare a riflettere sull’importanza
che hanno acquisito l’intrattenimento e
lo svago nel nostro tempo e chiedersi se questi
possono diventare la colonna vertebrale della
vita culturale. Mi pare che stia accadendo proprio
questo e con il beneplacito di ampi settori
della società, inclusi quelli che tradizionalmente
rappresentavano le istituzioni e i valori culturali.
Secondo me, Gilles Lipovetsky è uno dei
pensatori moderni che più ha riflettuto su questa
nuova cultura. In libri come L’era del vuoto o
L’impero dell’effimero, ha spiegato con grande
competenza in che cosa consiste questa nuova
cultura. Diversamente da me, Lipovetsky si è
avvicinato a questo tema senza inquietudine,
senza apprensione, anzi, con simpatia, rintracciando
nella nuova cultura elementi enormemente
positivi: per esempio, l’effetto democratizzatore
di una cultura che arriva a tutti, una
cultura che, a differenza di quella tradizionale,
non fa distinzioni, non è monopolizzata da alcuna
élite, da cenacoli di chierici o di intellettuali,
ma permea in un modo o nell’altro l’intera
società.

Lipovetsky afferma anche – ed è un tema
interessante, degno di essere dibattuto – che
questa cultura ha permesso la liberazione dell’individuo
perché, a differenza di quanto accadeva
in passato, quando l’individuo era prigioniero
ed espressione di una certa cultura, l’individuo
del nostro tempo può scegliere tra un’ampia
gamma di possibilità culturali, esercitando
così non solo una sovranità e una volontà, ma
anche un suo gusto e una sua inclinazione. Lipovetsky
dice che questa è una cultura del piacere
che permette a ognuno di trovare, appunto, il
suo piacere in attività che oggi sono etichettate
come culturali, ma che un tempo non lo sarebbero
state. Sono idee su cui discutere che a volte
mi convincono, a volte mi lasciano perplesso: il
nostro sarà quindi un confronto vivace tra due
posizioni molto diverse che possono però rivelarsi
complementari.

Gilles Lipovetsky: Grazie, Mario, per questa
bella presentazione nella quale mi riconosco in
pieno. Mario sottolinea che la società dello spettacolo
sfida il significato nobile della cultura.
Sono d’accordo. Ho cercato di teorizzare questa
idea in un mio libro di prossima pubblicazione e
dunque svilupperò un po’ questo punto. Che
cos’era la cultura nobile, la cultura alta, per i
moderni? La cultura rappresentava il nuovo
assoluto. Quando i moderni cominciarono a sviluppare
la società scientifica e democratica, i
romantici tedeschi crearono una specie di religione
dell’arte, che svolgeva il compito di fornire
ciò che né la religione né la scienza erano
in grado di dare – perché la scienza descrive
solo le cose del mondo. L’arte così diventò
sacra. Nei secoli XVII e XVIII, erano i poeti e
gli artisti in generale a mostrare il cammino, a
dire ciò che prima diceva la religione.
Quando analizziamo ciò che è la cultura nel
mondo del consumo, nella “società dello spettacolo”,
quel che notiamo è appunto il crollo di
questo modello. La cultura si trasforma in
un’unità di consumo. Non ci aspettiamo più che
la cultura cambi la vita, che cambi il mondo,
come pensava Rimbaud. Il compito dei poeti era
proprio questo: rifiutare il mondo utilitaristico,
come faceva Baudelaire. I poeti pensavano che
l’alta cultura potesse cambiare l’uomo e la vita.
Oggi, nessuno pensa più una cosa del genere.
Anzi, è la società dello spettacolo che di fatto ha
vinto. Quello che ci aspettiamo dalla cultura è
l’intrattenimento, cioè una forma più elevata di
divertimento. Sono il capitalismo e la tecnologia
a cambiare la vita, oggi. E la cultura finisce
per essere un loro contorno.

Noi due possiamo dire di condividere una
visione negativa di questa civiltà dello spettacolo e della società del consumo in generale. Negli
anni, nonostante tutto, io ho anche provato a
dimostrare il suo potenziale positivo. Visto da
un modello tradizionale di cultura, l’aspetto
negativo è innegabilmente grande, ma la vita
non è solo cultura. La vita è anche politica – per
noi, la democrazia –, è la nostra relazione con
gli altri, la relazione con noi stessi, con il piacere
e con molti altri elementi. A questo livello,
possiamo dire che la società dello spettacolo e la
società del consumo hanno massificato gli schemi
di comportamento, hanno fornito all’individuo
un livello più elevato di autonomia. Perché?
Perché ciò ha significato il crollo dei megadiscorsi,
delle grandi ideologie politiche che
confinavano gli individui all’interno di una rigida
serie di regole, e li ha sostituiti con il tempo
libero, con l’edonismo culturale. La gente non
ha più voglia di sottostare all’autorità: vuole
essere felice e cercare quella felicità con tutti i
mezzi a disposizione. La società edonistica dei
consumi ha permesso il proliferare di questi stili
di vita. La televisione, per esempio, è stata una
specie di tomba per l’alta cultura, ma ha anche
portato alle persone nuovi punti di riferimento,
ha aperto nuovi orizzonti, permettendo agli
individui di fare raffronti. Sotto questo aspetto,
la rivoluzione dei modi di vita della società
dello spettacolo ha permesso l’autonomizzazione
degli individui, creando una sorta di società
“alla carta” in cui le persone costruiscono i loro
stili di vita.

Credo che questo sia un aspetto importante
perché le società in cui domina lo spettacolo
sono, in genere, società fondate sul patto democratico.
Oggi, le lotte sociali non finiscono più in
un bagno di sangue e in tutte queste società la
figura del dittatore non esiste più. In un certo
senso, penso che la società dello spettacolo abbia
permesso alle democrazie di vivere in un modo
meno tragico e meno schizofrenico di quanto
non succedesse in passato. Però non ci siamo
ancora del tutto liberati di due tratti fondanti –
dei due grandi vizi – dell’età moderna: la rivoluzione
e il nazionalismo. I nazionalismi esistono
ovunque prevalga la società dello spettacolo, ma
non sono sanguinari; e la rivoluzione – la grande
epica del marxismo, la grande speranza rivoluzionario-
escatologica – non conta più molti
seguaci. Ricordare quello che i nazionalismi e le
rivoluzioni hanno significato per il XX secolo ci
permette di evitare le letture apocalittiche della
società dello spettacolo, anche se dobbiamo continuare
a considerarla criticamente.

MVL: Quelli sono gli aspetti
che potremmo chiamare positivi della civiltà
dello spettacolo – una volta tanto sono del tutto
d’accordo con Gilles. Ora vediamo quelli negativi,
a cominciare dalla scomparsa – o dal crollo
– dell’alta cultura che ha portato al trionfo di
una grande confusione. Insieme alla fine dell’alta
cultura, siamo testimoni anche della fine di
alcuni valori estetici. Le gerarchie che la vecchia
cultura aveva stabilito e che erano più o
meno rispettate non esistono più, né esiste un
canone condiviso o un ordine di precedenza. Ed
è un fatto straordinario, in un certo senso, perché
significa che, in campo culturale, godiamo
di una libertà infinita, ma all’interno di quella
libertà possiamo anche restare vittime delle peggiori
baggianate. È una realtà che vediamo tutti
i giorni. Forse, il caso più drammatico è quello
delle arti visive. La libertà che le arti visive
hanno conquistato consiste nel fatto che tutto
può essere arte e che nulla lo è; che tutta l’arte
può essere bella o brutta, ma non c’è modo di
distinguere tra le due. I vecchi canoni che ci permettevano
di distinguere tra l’eccellente, il
mondano e l’esecrabile non funzionano più:
tutto dipende dal gusto del cliente. Nel mondo
dell’arte la confusione ha raggiunto estremi talvolta
comici. Il grande talento e il brigante sono
entrambi vittime di macchinazioni diverse: della
pubblicità, per esempio, che ha sempre l’ultima
parola. È vero che in altri campi la confusione
non ha raggiunto questi estremi, ma si è comunque
infiltrata e ha causato grande incertezza.
Se la cultura è solo intrattenimento, nulla è
importante. Se si tratta di divertirsi, un impostore
può divertirmi molto di più di un persona profondamente
autentica. Ma se la cultura significa
qualcosa di più di questo, allora stiamo messi
male. E io credo che la cultura significhi molto
di più, e non soltanto per il piacere che produce
leggere un’opera letteraria o vedere una grande
opera o ascoltare una bella sinfonia o assistere a
un balletto, ma perché il tipo di sensibilità, il
tipo di immaginazione, il tipo di appetiti e di
desideri che l’alta cultura o la grande arte producono
in un individuo lo armano e lo equipaggiano
per vivere meglio, per essere molto più
consapevole dei problemi in cui sta immerso,
per essere molto più lucido rispetto a ciò che va
bene e a ciò che va male nel mondo in cui vive.
E anche perché questa sensibilità così formata
gli consente di difendersi meglio contro l’avversità
e di divertirsi di più – o, comunque, di soffrire
di meno.

Vi racconto un’esperienza personale: credo
che aver potuto leggere e godere di Góngora,
aver potuto leggere e comprendere l’Ulisse di
Joyce abbia enormemente arricchito la mia vita.
E non solo per il piacere che ho provato vivendo
quelle esperienze culturali, ma anche perché
mi hanno fatto capire meglio la politica, le relazioni
umane, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto,
quello che va bene e quello che va male,
molto male. Tutto ciò ha riempito una vita dalla
quale la religione era scomparsa quando ero
ancora molto giovane, lasciando al suo posto
una spiritualità che, senza quelle letture, non
sarei riuscito ad avere. Certo, parlo da un punto
di vista personale, ma se estendiamo tutto questo
alla società nel suo insieme, quando quella
cultura e tutto ciò che significa scompaiono per
essere sostituiti dal puro intrattenimento, che
cosa succede a tutto il resto? Il puro intrattenimento
è in grado di attrezzare una società tanto
da renderla capace di affrontare i problemi?
Io non sono un anticapitalista, anzi. Il capitalismo
ha fatto sì che l’umanità progredisse enormemente:
ci ha portato standard di vita più alti,
uno sviluppo scientifico che ci permette di vivere
infinitamente meglio di quanto non facessero
i nostri antenati. Tuttavia, i grandi teorici del
mercato hanno sempre detto che il capitalismo è
un meccanismo a sangue freddo, che crea ricchezza
ma anche egoismo. Questo deve essere
controbilanciato da una vita spirituale molto
ricca. Per molti teorici del capitalismo, la vita
spirituale coincideva con la religione. Ma altri,
che non erano religiosi, pensavano che fosse la
cultura. Io credo profondamente che il modo
migliore di compensare quell’egoismo, quella
solitudine, quella competizione così terribile da
arrivare a estremi di grande disumanizzazione,
esiga una vita culturale molto ricca nel senso
più alto della parola “cultura” – se non vogliamo
arrivare a ciò a cui disgraziatamente la
società contemporanea sta già arrivando: a un
vuoto spirituale che manifesta quotidianamente
tutti gli aspetti negativi della società industriale,
tutta la sua disumanizzazione.

Diversamente da Gilles, non credo che la
civiltà dello spettacolo abbia portato la pace, la
serenità e la conformità necessarie a estirpare, o
almeno a ridurre, la violenza. Casomai il contrario.
La violenza c’è sempre, è una presenza
costante nelle nostre città, impregnate di criminalità,
in cui domina ogni tipo di discriminazione.
Ci sono fantasmi che nascono, per esempio,
dalla crisi economica e che si traducono in
xenofobia, in razzismo e, appunto, in discriminazione.
Per non parlare della violenza contro le
minoranze sessuali che si manifesta quasi in
tutto il mondo. A che cosa va attribuita una cosa
del genere? Come spiegarla? Credo che uno dei
fattori che spiega le manifestazioni violente più
crude e sfrenate sia proprio il crollo dell’alta
cultura che è ciò che arricchisce la sensibilità,
che in qualche modo ci porta a occuparci dei
grandi temi – una cultura che, oltre a intrattenere,
sia preoccupante, perturbante, in grado di
inculcare anticonformismo e spirito critico, è
qualcosa che una cultura che è puro intrattenimento
non potrà mai essere. In uno dei suoi
saggi, Gilles la chiama “cultura-mondo”.
Non ce l’ho con lo spettacolo, anzi, mi piace
e mi diverte moltissimo. Ma se la cultura diventa
solo spettacolo, credo che ciò che prevarrà
alla fine sarà il conformismo, piuttosto che la
serenità, vale a dire una specie di rassegnazione
passiva. E nella moderna società capitalistica, la
pura passività dell’individuo non significa rafforzamento
della cultura democratica, ma crollo
delle istituzioni democratiche. Un atteggiamento
del genere va contro la partecipazione creativa
e critica dell’individuo alla vita sociale, politica
e civile. Per me, uno dei fenomeni più
inquietanti della società contemporanea è il
disimpegno degli intellettuali e degli artisti
rispetto ai temi civili, il disprezzo assoluto per la
vita politica, considerata attività sporca, ignobile
e corrotta a cui voltare le spalle e da cui non
farsi contaminare. Come può alla lunga una
società democratica sopravvivere senza la partecipazione
della gente più pensante, di quella più sensibile, più creativa, di quella che ha più
immaginazione?

GL: Spesso associamo la società
dello spettacolo alla scomparsa degli ideali.
Questo è un aspetto della cosa, ma non è il solo.
Nelle nuove generazioni di persone impegnate
c’è una base che non è più politica, ma legata
all’imperativo della generosità, dell’aiuto reciproco.
La società contemporanea non è sinonimo
di cinismo totale o di nihilismo. Certo, questo
aspetto c’è, ma ci sono anche controtendenze.
Ci sono un sacco di ONG, di volontari, di
gente che si impegna, che regala il proprio
tempo e che cerca di fare qualcosa per gli altri,
piuttosto che solo per se stessa. Certo, non è un
fenomeno universale, ma è sorprendente che,
nonostante tutto, la società dello spettacolo
favorisca queste manifestazioni di generosità
attraverso il mondo. La società della spettacolo
non crea solo egoismi; crea altri fenomeni che ci
permettono di trovare un equilibrio. Noi due
abbiamo una visione diversa dell’alta cultura.
Mario la vede come un contrappeso, come un
salvavita o un antidoto contro la deregulation
mortale dello spettacolo e del capitalismo.
Mario non è contro il capitalismo, ma cerca un
modo di umanizzarlo. E qui ci troviamo d’accordo.
Ma non siamo ottimisti alla stessa maniera.
Mario pensa che l’alta cultura sia un mezzo
fondamentale ed essenziale per correggere un
aspetto del capitalismo. Io sono più scettico:
forse ho meno fiducia di lui nell’alta cultura.
Mario ha detto alcune cose molto importanti
sulla violenza: che, nella società dello spettacolo,
che è anche associata allo svago, sono apparse
forme di violenza di ogni tipo. Tuttavia, è
giusto ricordare che, in un momento molto rilevante
per l’alta cultura, Oscar Wilde passò due
anni in carcere e il resto della sua breve vita in
esilio. Nella patria di Goethe e di Kant, l’alta
cultura è stata incapace di proteggere gli esseri
umani dalla barbarie nazista.

Sono un accademico, difendo l’alta cultura,
ma penso che sia nostro dovere proporre anche
altri percorsi. Visto il disorientamento del
mondo contemporaneo, quel che dobbiamo fare
è ricostruire la dignità della gente e la fiducia
nell’azione. Non solo la fiducia nella conoscenza
e nel godimento delle grandi opere. L’alta
cultura contribuisce a creare l’individuo, ma a
ciò contribuisce anche il fatto che gli individui
sono attori che costruiscono il loro mondo. La
scuola non deve restare ferma o agire solo contro
la televisione o simili. La scuola deve fornire
gli strumenti affinché gli individui diventino
creatori, non solo di arte o di letteratura, ma di
qualsiasi cosa. L’alta cultura, che è l’umanesimo,
è una via. Ma non è l’unica. È una strada
che deve accompagnarsi ad altre perché, se pensiamo
che sia quella centrale, avremo molte difficoltà.
Nella società dell’immagine, dell’intrattenimento,
è più difficile che le masse partecipino
a un autentico fermento culturale. Per chi
non abbia ricevuto l’educazione necessaria, leggere
l’Ulisse oggi è difficile, anche se non
impossibile. Possiamo vivere, e vivere bene,
dignitosamente, senza conoscere i classici.
Concordiamo entrambi sulla diagnosi per cui
la società dello spettacolo trae origine dal crollo
delle gerarchie estetiche. Ma qui dobbiamo fermarci
un momento e osservare che la società
dello spettacolo non è la sola responsabile.
Tutto ha avuto inizio con la cultura più alta:
l’avanguardia. È da lì che è partito l’attacco
contro l’arte accademica, contro “il bello”.
Duchamp non faceva parte della società dello
spettacolo, eppure è stato lui ad aprire la porta
all’idea che qualsiasi cosa esponessimo in una
mostra per questo sarebbe stata chiamata “arte”.
Il seme del crollo dell’estetica e dell’alta cultura
si trova nell’alta cultura stessa.

Alla fine, la società dello spettacolo non ha
cambiato molto le gerarchie estetiche. Che cosa
ha fatto? La società del XX secolo ha creato
qualcosa di inaudito nella storia: un'”arte delle
masse”. Prendiamo il cinema, per esempio. Il
film è un’opera destinata a tutti, a prescindere dal bagaglio culturale di ognuno – non bisogna
aver letto i classici per apprezzarlo. Il cinema
non ha cambiato l’estetica, ha creato qualcosa di
diverso: un’arte dell’intrattenimento che può
regalarci opere mediocri ma anche veri e propri
capolavori. Sempre di più, film intermedi, che
non sono grandi opere ma che non sono neanche
tanto male, producono emozioni e fanno riflettere
la gente.

MVL: Sono contento che Gilles
abbia toccato il tema del nazismo. La prima
cosa che fece il nazismo appena salito al potere
fu un enorme rogo di libri di fronte all’università
di Berlino. In quell’atto, praticamente tutta la
grande tradizione culturale tedesca andò in
fumo. Il nazismo non è l’unico movimento totalitario
che diffidasse profondamente della creazione
artistica, del pensiero filosofico, degli
artisti che erano più o meno critici del loro
tempo e della loro società – artisti che vennero
brutalmente repressi.

A causa dell’enorme sospetto nei confronti
della cultura, la prima cosa che fanno tutte le
società autoritarie è creare un sistema di censura.
E hanno ragione nel vedersi minacciate dalla
cultura. È così che sono nate l’Inquisizione e
tutte le forme repressive della vita intellettuale e
spirituale che dovevano essere bloccate perché
quella vita non corrispondeva ai dettami del
potere. Così hanno fatto tutte le dittature –
comunismo, fascismo, nazismo. Abbiamo così la
dimostrazione più vera di quanto sia importante
una cultura ricca, creativa e libera. Il fatto che un
cultura ricca e creativa sia anche libera è uno dei
fondamenti della libertà. La libertà scompare
nelle mani di un regime totalitario brutale –
Hitler, Stalin, Fidel Castro, Mao Tse-Tung – ma
può anche scomparire in altri modi, per esempio
attraverso la frivolezza e lo snobismo. Ci sono
persone che, non avendo la necessaria cultura,
credono che Joyce, Eliot o Proust siano totalmente
inutili e questo perché hanno preoccupazioni
immediate molto più pressanti da risolvere.
Pensarla così è pericoloso. Credo che Proust sia
importante per tutti, anche per chi non sa leggere.
Penso che in qualche modo ciò che ha detto
Proust sia importante anche per chi non è nelle
condizioni di leggerlo. Rispetto a certe cose,
Proust ha creato una sensibilità che ha reso gli
individui capaci di esserne contaminati. E li ha
resi consapevoli dell’esistenza di alcuni diritti
umani. Questo tipo di sensibilità viene dalla cultura.
Quando la cultura non è dietro a questa sensibilità,
essa si indebolisce molto. Questo spiega
perché, nonostante l’Europa abbia vissuto le
esperienze atroci dell’Olocausto, non solo l’antisemitismo
non è scomparso, ma periodicamente
rinasce. E spiega perché la xenofobia, che è una
tara universale, riaffiori, non in società primitive
e incolte, ma in società estremamente avanzate e
acculturate, e proprio in quelle zone della società
in cui Proust, Eliot o l’Ulisse di Joyce non
sono mai arrivati.

L’alta cultura è inseparabile dalla libertà.
L’alta cultura è sempre stata critica, è sempre
stata il risultato di un anticonformismo e una
fonte di non-conformità. Non si possono leggere
Kafka, Tolstoj, Flaubert senza convincersi
che il mondo è fatto proprio male; che, confrontato
con opere così belle, perfette, eleganti, dove
tutto è elegante – perfino il bello e il brutto – il
mondo reale è veramente mediocre. Ciò crea in
noi un sentimento di non-conformità, di resistenza
e di rifiuto della realtà reale. Questa è
l’origine principale del progresso e della libertà.
Non solamente in campo materiale, ma soprattutto
in quello dei diritti umani e delle istituzioni
democratiche. La difesa dell’alta cultura è
legata alla grande preoccupazione per la libertà
e per la democrazia.

È vero che nelle società colte del passato esistevano
ingiustizie mostruose dal punto di vista
sociale ed economico. Che cos’è che ci ha reso
coscienti di quelle ingiustizie? La cultura. La
cultura ci ha dato la sensibilità e la razionalità
che ci hanno reso consapevoli di quello che non
andava bene intorno a noi. È stata la cultura a
farci capire che la schiavitù era ingiusta e che
doveva finire; che il colonialismo era ingiusto e
che doveva scomparire; che tutte le forme di
razzismo e di discriminazione sono ingiuste e
violente. Quando Proust stava scrivendo La
Ricerca
, non sapeva di lavorare per la libertà e
per la giustizia. Rembrandt e Michelangelo lo
stesso; e anche Wagner, nonostante fosse un razzista.
Lo stesso vale per tutti i grandi artisti,
pensatori, creatori. La loro funzione non è paragonabile
a quella dei tecnocrati o degli scienziati,
nonostante il loro contributo all’umanità sia
quello di specialisti che si muovono lungo una
linea precisa. L’opera dei grandi umanisti, invece,
si muove in tante direzioni: è orientata verso
la società nel suo insieme e cerca di ristabilire i
comuni denominatori che sono andati perduti
con la modernizzazione e con l’industrializzazione.
La società moderna segrega e separa gli
individui: per questo è importante avere un
comune denominatore che ci faccia sentire congiuntamente
e fraternamente responsabili – è
questo che crea una comunità di interessi tra
noi. Solo la cultura è in grado di creare quella
comunità di interessi, non la tecnologia, non la
scienza che creano specialisti e divisioni tra loro
incompatibili.

Difendere l’alta cultura significa difendere
non solo la piccola élite che gode dei prodotti
dell’alta cultura, ma anche difendere cose fondamentali
per l’umanità come la libertà e la cultura
democratica. L’alta cultura ci difende dal
totalitarismo e dall’autoritarismo, ma anche dal
settarismo e dal dogma.

Gilles Lipovetsky dice che le ideologie – che
anche io temo – si sono dissolte nella cultura
dello spettacolo; che la società dello spettacolo
è stata più efficace di quanto non lo siano stati
gli argomenti razionali e democratici nella lotta
contro le grandi ideologie utopiche. Se molte
delle ideologie si sono disintegrate e stanno
scomparendo, risucchiate dalla necessità di
divertimento, di intrattenimento, delle mode e
della ricerca del piacere immediato, allora c’è
qualcosa da festeggiare. Il crollo delle grandi
ideologie corrisponde alla fine di una delle
grandi ragioni di guerra e di violenza della
società moderna.

GL: Mario ha sottolineato un
punto che mi vede in assoluto accordo con lui:
se siamo donne e uomini moderni, lo dobbiamo
all’alta cultura – alla filosofia e alla letteratura.
La democrazia, i diritti umani, l’umanesimo non
sono nati per caso. Derivano da un fermento di
idee, da una sensibilità moderna a cui hanno
contribuito filosofi e scrittori, ed è questo che ha
forgiato l’universo umanistico, individualistico
e democratico. Il mondo moderno nasce dallo
spirito di alcuni pensatori che hanno gettato il
seme, che hanno redatto il codice di una società
che non trova più il suo fondamento nell’Altro
Mondo ma che lo incontra in se stessa, riconoscendo
la libertà, la dignità e l’eguaglianza di
tutti. Questa è un’invenzione intellettuale che
dobbiamo all’alta cultura. Sono d’accordo
anche sul fatto che dobbiamo difendere la creazione
come agente di libertà.

Non sono convinto, invece, che l’alta cultura
ci preservi, ci conservi e ci protegga contro l’irrompere
della violenza, del totalitarismo o della
violenza di qualunque altro tipo. Se l’alta cultura
genera libertà, può spesso, come avrebbe
detto Kant, essere azzoppata dalle minacce del
potere e degli interessi privati. Oggi non è solo
l’alta cultura che difende i valori che noi tutti
amiamo e apprezziamo; anche la televisione, il
cinema e molti prodotti di massa celebrano i
diritti umani e la dignità. Non saranno tutti grandi
capolavori, ciò nonostante diffondono
un’ideologia umanistica. Per esempio, i film di
Spielberg mi sorprendono sempre. Non sono
alta cultura, sono film di successo e costano
milioni di dollari di produzione. Ma quei film
diffondono idee umanistiche e un immaginario
democratico e anche valori che all’inizio erano
nati in ambienti culturali elevati. La società dei
consumi, la società dello spettacolo – che più o
meno coincidono – hanno prodotto molte cose:
hanno creato benessere, hanno permesso alla
gente di condividere opinioni, hanno distrutto le
grandi ideologie e dato alle persone più autonomia.
Ma non è abbastanza. La società dello spettacolo,
che promette felicità, non è in grado di
mantenere la parola data. Tuttavia non possiamo
demonizzare la società dei consumi, non possiamo
buttare il bambino con l’acqua sporca. Dobbiamo
riconoscere quello che di positivo esiste
in questa società – libertà, longevità, stili di vita;
ma allo stesso tempo non possiamo nasconderci
che l’universo del consumo è incapace di soddisfare
le aspirazioni più elevate del mondo. L’uomo
non è solo un consumatore, ma la società dei
consumi si rivolge all’uomo come se fosse solo
un consumatore. Qual è la differenza tra il consumatore
e l’uomo? Ce ne sono molte. In ogni
caso, in una prospettiva umanistica, erede dell’alta
cultura, ci aspettiamo che l’uomo sia creativo,
che inventi, che abbia valori – condizioni
che la società dei consumi non offre. Per questa ragione vediamo nascere molti movimenti che
si impegnano, che propongono, che agiscono.
Le persone hanno bisogno di impegnarsi.
Grazie a internet e ai nuovi media vediamo
sempre più spesso emergere giovani dilettanti
che si danno da fare, creano video, cortometraggi,
musica. Questi prodotti non sempre sono
geniali, però questo fermento ci dice che ciò che
Nietzsche chiamava “volontà di potenza” oggi è
volontà di creazione. Questa volontà è qualcosa
che la società dei consumi non ha distrutto, né è
riuscita a trasformare la gente in persone che
vogliono solo oggetti di marca. Gli uomini continuano
a fare qualcosa della loro vita. Ed è questo
che deve fare la scuola: fornire strumenti
affinché l’uomo, ovunque si trovi, possa fare
qualcosa della sua vita e non essere semplicemente
un consumatore di marche alla moda. C’è
un lavoro enorme da fare.

Il meccanismo mondiale del capitalismo
riduce il margine di manovra, restringe il campo
d’azione, ma la cultura può fare molto e l’educazione
può agire. Questa è una delle grandi
sfide del XXI secolo. La società non deve essere
forgiata dalla tecnologia ma anche da uomini
che siano in grado di pensare e avere desideri.
La scuola deve contribuire a fare questo. L’alta
cultura è uno degli strumenti, ma non l’unico. In
una società disorientata che non ha più punti di
riferimento, l’educazione va ripensata. È una
grande sfida da cui nascerà il mondo di domani.

MVL: Sono assolutamente d’accordo.
La moderna società industriale, la società
del mercato, la società dei paesi avanzati ha
migliorato enormemente le condizioni di vita
degli individui. Ma non è riuscita a portare la felicità
che le persone desideravano profondamente.
Quello che manca è ciò che si chiama “una ricca
vita spirituale”. La religione provvede a ciò per
una parte della società, ma ne rimane un ampio
settore che non è interessato ed è proprio qui che
la cultura deve giocare un ruolo fondamentale.
L’educazione deve essere lo strumento principale
attraverso cui la società moderna può gradualmente
riempire questo vuoto spirituale. Ma se
c’è una cosa che è in crisi nella società moderna è
proprio l’educazione. Non c’è un solo Paese al
mondo in cui il sistema scolastico non sia in una
crisi profonda, per la semplice ragione che noi
non sappiamo quale sia il sistema migliore e più
efficace, il sistema che crei da una parte i tecnici
e i professionisti di cui la società ha bisogno e che,
dall’altra, ne riempia i vuoti spirituali. L’educazione
è in crisi perché è incapace di trovare una
formula che possa tenere insieme questi due
obiettivi. È su questo che dobbiamo lavorare, se
vogliamo una società moderna capace di soddisfare
le necessità materiali degli uomini e delle
donne e di riempire il vuoto spirituale. Se l’educazione
è assolutamente fondamentale, anche la
famiglia e l’individuo lo sono, ed è dunque necessario
un certo consenso quando si tratta di sviluppare
programmi che devono governare la vita
delle nostre scuole e delle nostre università. C’è
una confusione straordinaria su questo, ma se esistesse
almeno la consapevolezza che è nell’educazione
che dobbiamo essere creativi e funzionali,
avremmo già fatto un passo in avanti. Comunque
sia, nonostante le differenze tra noi due, credo
che concordiamo sul fatto che sia necessario leggere
Proust, Joyce e Rimbaud; che ciò che Kant,
che Popper, o che Nietzsche hanno pensato valga
ancora ai nostri giorni e ci possa aiutare a progettare
programmi educativi su cui la società di
domani possa fondarsi, se vorrà diventare meno
violenta e meno infelice di quanto non sia oggi.

Published 8 January 2014
Original in Spanish
Translated by Alessandro Spatafora
First published by Letras Libres 7/2012 (Spanish version); Lettera internazionale 117 (Italian version)

Contributed by Lettera internazionale © Mario Vargas Llosa, Gilles Lipovetsky / Lettera internazionale / Eurozine

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